sabato 28 dicembre 2013

ALL THE BEAUTY MUST DIE


 

Per un minuto di vita breve / unica, a occhi aperti / Per un minuto in cui vedere / nel cervello piccoli fiori / che danzano come parole sulla bocca di un / muto Alejandra Pizarnik (scrittrice argentina).

 

In farmacia spio il cartellone pubblicitario dell’ennesima pozione miracolosa “completamente naturale”. Leggo il bugiardino che promette di annullare interi banchetti pantagruelici e intanto provo a chiedere al commesso se ci sono basi scientifiche che mi consentano di credere alle magie della Fatina dei Denti. Lui tentenna – gli occhi azzurri, i capelli cinerini, il camice bianco con la croce cucita sul taschino: somiglia a un airone avvolto dalla nebbia. Rigiro la scatola tra le mani. La poso ed esco con una sensazione amara in gola. Devo tornare a casa prima che Cassy vada a lavorare. Nonostante tutto mi piacerebbe che mi vedesse indossare la mia nuvoletta di raso cinese da cerimonia.

Lei sta dormendo mentre mi lavo e calo d’all’alto l’armatura di sette sottogonne, ma i veli emettono un debole fruscio quando entro in soggiorno e sfioro una pila di libri ancora da leggere. «Vuoi che ti guardi?» le pupille faticano a trovare un punto concreto, mediando nell’incertezza sfocata della scena sdoppiata; le sue dita sono un ragno che tasta il tavolino in cerca degli occhiali.  S’illumina appena decifra le coordinate del mondo. «Sembra proprio una prima comunione» Non so se esserne felice. Non so se era questo che avevo immaginato. Per un secondo, la gioia esita agli angoli della mia bocca. «Avresti preferito che dicessi che sembri una sposa?» «Sì, forse» Sarebbe bello essere una principessa accompagnata dal Re sulla passeggiata in riva al mare, con le persone che suonano i clacson delle macchine e lanciano petali profumati (onde in sottofondo e sale nei capelli).

«Ci vediamo stasera, mamma». Mi stupisco io stessa: di solito non la metto in questi termini, ma ho bisogno di una carezza, ho bisogno di trattenerla ancora un po’ in questa bolla d’affetto sottinteso. L’ape-madre mi concede un momento strappato alla  monotonia della routine quotidiana – “su trajín” direbbe una poetessa di Buenos Aires, con il tintinnio mutevole di una nobile lingua prestata. «Dai, che la mia sveglia è già suonata da un pezzo!»

L’ufficio l’aspetta: con i clienti ipocondriaci e pigri, la scrivania che sa di tabacco e le stampe di Ligozzi arpionate ai muri.

 

Io sarò l’attrazione del sit-in che l’Associazione ha organizzato di fronte alla cattedrale.

 

Ammiro la forza di Noélia, la presidentessa. Ha la pelle ambrata che ricorda una mansueta nepenthes carnivora e una vitalità che sgorga dall’energia di gesti smisurati. Ha un cuore rosso appuntato sul petto e un occhio nero di trucco per attirare l’attenzione dei passanti. «Troppe donne vengono uccise, nel silenzio generale!» Protesta con una passione sessantottina e la morbidezza dell’accento esotico piegata alla veemenza delle sollevazioni.

Presentandosi al microfono, parla con naturalezza di sua figlia assorbita dalla voracità di una cellula imitativa (Penso: “La danza dei linfoblasti immaturi avrebbe un che di armonioso, se non fosse mortale”). Ascoltando gli accordi delle parole, tocco d’istinto le cicatrici lasciate sui miei polsi dall’indecisione: “Io non sarei stata in grado di vincere la disperazione dell’assenza”. 

Alla fine dell’intervento di Noélia, mi muovo tra i curiosi per andare a salutarla. È piccola di statura ma sprizza scintille elettrostatiche, in mezzo a Ife e Gabriela. Una è altera, scura, bella come una Regina africana nel suo completo nigeriano a motivi viola; l’altra è appena tornata dal Brasile e ha una grossa rosa di stoffa blu attaccata al bavero della giacca. Ho l’impressione di sfogliare le illustrazioni di una leggenda del candomblé. Mi avvicino, spezzando la perfezione dell’insieme.

«Come stai bene vestita così, ottima idea!» «È un omaggio a Pippa Bacca …» dal loro silenzio educato capisco che non hanno colto la citazione. «Era un’artista italiana che è stata violentata e ammazzata da un uomo, mentre faceva l’autostop in Turchua. La sua ultima performance itinerante voleva promuovere la pace e la fiducia nel prossimo» Spiego sorvolando sui dettagli che non riesco ad afferrare nella memoria (Penso: “A volte la vita dimostra una macabra ironia”). Era partita da Milano seguendo un’utopia dissestata sull’atlante stradale. Non era mai riuscita a raggiungere le cupole dorate di Gerusalemme.
 

domenica 8 dicembre 2013

KARMA DESEASES


«Cos’hai?» la preoccupazione di Ondine commenta le mie occhiaie scure e mi fa tremare il cuore. Lo sguardo scorre sull’ombra delle sue ciglia si perde in una scollatura appena accennata, dentro le righe marinaresche di una maglia Petit Bateau – Bellezza anni Trenta, un piccolo neo sullo zigomo; profumo di pompelmo e di gelsomino.

 «Nulla che non si possa curare con una lametta affilata» La verità è che l’indecisione mi uccide: le nuove offerte dal rutilante mondo della telefonia intelligente mi stanno per trasformare in una consumista assetata di applicazioni scaricabili.

Gioco con l’apertura a scatto di un cutter.

Avrei voglia di tessere le linee del Destino con una rete di ghirigori rossi. Disegno stigmate appuntite sul palmo della mano (Penso: “Forse Gesù aveva la stessa abnegazione sacrificale di Sid Vicious”). Ma ho sempre avuto orrore dei chiodi da nove pollici della crocifissione. Ho sempre avuto paura delle unghie lunghe della strega-sadhu.  

Avrei voglia di disegnarmi solchi profondi sulle guance (Penso: “Forse la Madonnina di Civitavecchia è una martire autolesionista”). 

Avrei voglia di provare mille punture scarlatte sulla pianta dei piedi (La corsa distratta di un fachiro principiante).

 

 Oggi, mentre scrivo l’ennesimo articolo da sottoporre alle ire del Boss, la testa gira e le lettere si confondono sullo schermo ultra-minuscolo del mio portatile troppo lento.

 «Non posso darti uno spazio su internet. Dobbiamo pensarci bene, perché poi è l’associazione a metterci la faccia, capisci? Se tu un giorno impazzissi e parlassi benissimo dei “Pinguini Coccolosi”, poi ci andremmo di mezzo noi. … O se ti venisse la sindrome di Tourette e di punto in bianco mandassi un post insultando tutti ...» Fuochi d’artificio rossi-rossi lavano l’offesa, pirotecniche secrezioni gialle-gialle purificano il mio Ego. Qui urge un rito per punire gli insinceri.

Devo andare in bagno, sciacquarmi il viso, guardarmi allo specchio per capire chi sono. Mary Ellis sogghigna e non lascia correre nulla. Da un po’ è così: qualsiasi cosa faccia non è mai sufficiente e il cumolo di arretrati diviene sempre più minaccioso e caotico sulla mia scrivania. Non ho scampo.  – Spezzo le croste protettive, riapro ferite.

È sorprendente quanto sia rosa e tenera la carne sotto la pelle. Qualcuno ricorda i globuli paffuti con un marsupio sulla schiena, quelli del cartone animato sul corpo umano? Avevano sempre un bel sorriso gentile, loro.

 «Forse è meglio se vai a casa». È di nuovo Ondine che mi sveglia dalla letargia ovattata, quasi spingendomi verso la porta. Sì, comprerò in farmacia dei cerotti pediatrici che si abbinino con i colori dei miei braccialetti: detesto le normali strisce di plastica che sembrano uscite dal bancone del macellaio, mentre quelle bianche fanno sembrare tutto più drammatico del necessario, come in una specie di documentario sul triage.  … Ma mi soffermo sull’idea di usare una medicazione da naso: le due ali incerte di una farfalla distese sui crateri irregolari.

 

Sul ponte il vento è forte e teso. Un capannello di persone si sporgono oltre il parapetto, indicando qualcosa tra l’erba del greto asciutto; un bambino urla: «Un cinghiale! Un cinghiale!» e tira fuori il cellulare per condividere la foto su facebook e garantirsi il suo quarto d’ora di popolarità. … Più avanti un uomo sminuzza due fette di pane da buttare al cucciolo selvatico, dimenticando che non si tratta di un’oca da giardino.

Lo Spirito della Foresta è sceso a valle per ammonire gli umani ma ora si nasconde, stordito dalla paura. Attraverso la scena come un’attrice fuori dal suo ruolo. – D’altronde mi ho avuto spesso la sensazione di non riuscire a entrare nei panni che mi erano stati assegnati.

 Le cicatrici esposte pulsano contro l’aria. Magari il mio braccio è stato maledetto com’è successo al Principe Ashitaka condannato dalla forza sovrannaturale dell’odio. Un giorno o l’altro ucciderò qualcuno, in preda a un raptus do lucida follia surrealista ma intanto, per riprendermi, ho bisogno di stendermi e chiudere gli occhi … anche solo per un secondo.

Alle otto la serratura è ancora chiusa a doppia mandata. L’ingresso è avvolto in una luce arancione che bagna la guzmania fiammeggiante sul carrello.

Mi butto sul letto disfatto e provo a dormire ma da qualche parte un solerte vicino aziona un decespugliatore trasformandosi in un moderno bandeirante da discount intento a pareggiare una siepe di rose spinose. Il mio cervello è costretto a rimanere su “on” e accendo meccanicamente il televisore. “Dev’esserci per forza almeno un programma interessante nel mosaico dei pixel digitali!” La maggior parte dei canali è oscurata da un potere demoniaco che recita “Assenza di segnale”, precipitandomi nel blu dello schermo vuoto.

Sposto il lenzuolo.Ho lasciato due macchioline scure / trasparenti sul sorriso buonista di Winnie the Pooh.

Mi alzo barcollando e calpesto un pulcino di piume gialle che è caduto dal mobiletto. ne avevo comprato dieci da regalare per Pasqua, e lui è avanzato dal mucchio. Ora mi fissa spiaccicato sul pavimento. Triste, pigola come i suoi fratellini veri asciugati a morte dentro un essiccatoio.

Potrei passare a salutare Hortensia.

 

Sua figlia Agatha ha avuto un bambino ma la sua pancia non si è ancora sgonfiata: nel romanzo che ho appena finito di leggere, succede lo stesso. Magari potrei consigliarle un rito sciamanico, la circumambulazione intorno al suono argentino delle campane sacre o la meditazione, anche se poi nel libro la malattia viene sconfitta da un’imprecisata diagnosi occidentale e la protagonista torna normale, senza trovare la bellezza: non si può invertire la ruota del karma.

Intanto, per sentirmi umana, ho comprato un pensiero per il piccolo che compirà sei mesi tra poco (Penso: “mezzo anno è un traguardo importante”).

Premo il pulsante elettrico: «Ho portato un regalo per Alexis» Il nome era stato un mio suggerimento, in omaggio all’utopia entusiasmante di Zorba il Greco.

«Grazie. Che pensiero carino!» Hortensia sorride e mi fa accomodare in cucina dopo aver chiuso le porte, per non far scappare i gatti. Mi offre un bicchiere d’acqua, per non farmi sentire a disagio di fronte alla cena imbandita sul tavolo.

Gesticolo stancamente commentando la mia giornata di lavoro buttato e le solite notizie del telegiornale – Il Papa Nero benedice colombe; in California si consuma un’altra strage di ordinaria follia.

I ciondoli scivolano sul mio polso lasciando scoperti i morsi del rasoio «Cosa ti sei fatta?» La domanda cade candidamente nella conversazione, aleggiando su di un piatto di formaggi speziati. Mi fisso le mani per un secondo. Sono tese, azzurre, magre. Le mie mani sono foglie. «Niente che tu debba sapere». È la prima a essersene accorta, questa volta. In passato mi era capitato di dover giustificare i buchi inventando un incidente col motorino che non ho, ma anche in quel caso gli occhi di chi sapeva si erano tinti di una sfumatura di preoccupazione partecipe.

Decido di non dirle nulla di Agatha e del ciclo delle reincarnazioni. Lei non si spinge oltre e l’imbarazzo svia il discorso.

Di certo anche Cassy non avrebbe la stessa reazione, se avesse il tempo di osservami da vicino, se avesse il tempo di vedermi

Non mi posso lamentare per questo. Se davvero percepisse la mia debolezza, una smorfia amara d’impotenza le segnerebbe il viso, il suo affetto si colorerebbe di tonalità aggressive «In fondo ti piace, no? Farti del male! Prego, perché non continui» mi porgerebbe qualche arma da cucina in segno di sfida rassegnata e intanto penserebbe: “Mia figlia è una spostata” e solo dopo arriverebbe a“Mia figlia ha un vuoto dentro”. E, se anche mi chiedesse chiarimenti, la mia risposta sarebbe sempre la stessa: «Non è niente che tu debba sapere»

Ho scommesso la mia vita per diventare un fantasma - «Fino a che punto vuoi spingerti?» mi ha chiesto una volta un’amica giapponese. «Fino a sparire …, così: “pufff”»

Sono morta.

Ero già morta quando sono atterrata su questo Pianeta – come un pesciolino alieno fuor d’acqua.

L’altra me – quella che dice di chiamarsi Alissa – è scomparsa nella nebbia.
http://youtu.be/IBH97ma9YiI
http://youtu.be/NOG3eus4ZSo
http://www.youtube.com/watch?v=AvJKVKglIRs&feature=share&list=AL94UKMTqg-9AIiIsJrXBVaxCZpiEurHLK&index=1
http://youtu.be/MiNz28XML30

venerdì 8 novembre 2013

PRESS-ATA NELLA SALA DELLE SPIE / LA LUPA


 
Scena uno: Loudness war

Il convegno va avanti: come parlare di poesia alla Fiera dell’Est, con versi urlati sul sottofondo di un brusio costante condito di Julio Iglesias da balera romagnola, musichette isteriche da giostra e imbonitori della mercato letterario.

Ognuno cerca di vendere a grida la sua bambolina e il “simpatico omaggio per i signori giornalisti” è finito in un lampo lasciando la sala stampa piena solo d’inutili pezzi di carta incomunicanti. Mi consolo con una visione del corpo del bodyguard all’ingresso, statuario e annoiato. «C’è ancora uno shopper?», domando pretestuosa, «No, forse ne consegnano altri domani mattina» risponde un Tyler Durden più vero, meno schizzato. «Sono arrivate le borse?», potrei chiedere il giorno dopo, «No, mi spiace» direbbe lui con l’auricolare piantato nell’orecchio e le gambe leggermente divaricate come nei film. E io mi trovo in un luogo in cui, per una volta, non sono “la canticchiante e danzante merda del mondo!”

«Hai fatto un’osservazione molto acuta» la console cilena mi stringe la mano alla fine di una tavola rotonda su Óscar Hahn e l’Anti-poesia. Il profumo dei libri nuovi che mi hanno regalato è un elisir d’intelligenza.

Scrivo.

 In questa confusione,

Sviluppando un naturale tappo nelle orecchie.

Comincio ad avere i crampi alla mano e la matita si accorcia.

«Scusa, potrei chiederti di temperarla su di un fazzoletto o in un sacchettino? Ieri ho trovato un sacco di pezzetti e non capivo chi fosse, poi ti ho visto … Scusa sai, è che devo tenere un po’ pulito …» Seguire i trucioli come una colonna di formiche lituane, come le formiche tatuate sul braccio di un ragazzo segnato dalle punture dei paradisi artificiali.

Nel corridoio passa una suora-infermiera marziale: se fosse un po’ meno teutonica e quadrata, se fosse solo un po’ più sexy, sembrerebbe un cosplay.

 

Scena due: Out in the parallel city

Il clima è impazzito: a casa, tre giorni fa, stavo in t-shirt a prendere il sole e adesso, qui in questa città estranea pare che sia novembre. La gente resta con l’ombrello aperto sulle scale mobili che sprofondano nel sottosuolo.

Ormai ho imparato un percorso e mi attengo alle linee della mia mappa immaginaria. Fieramente barcollo, inseguendo la purezza del vuoto interiore. Le zebre degli attraversamenti pedonali marcano lo spostamento di un orizzonte progressivo e sfuggente, come l’oceano azzurro dei grandi conquistatori (E il blu è il colore originario dell’universo degli indios mapuche).

La mente è lucida ma procede a scatti vigili: “Svoltare nel grande viale alberato – Superare il distributore e il bar universitario di fronte alla facciata minimale di un palazzo – Attraversare dove c’è l’insegna “Compro orologi” (come se si potesse commerciare il Tempo) – Contare tre traverse partendo da quella che ho ribattezzato “Via Glucosio” – Cercare l’insegna rossa di una banca dal nome vagamente ellenico e il negozio di telefoni (antidiluviano e incongruo nell’era dell’I-Phone).

A casa di Ethel, la presenza-assenza di Sylvia è un non-detto palpabile. Mi sarebbe piaciuto vederla dalla web-cam materna orientata su stanze canadesi, ma lei non risponde alla chiamata e mi accontento delle foto disseminate persino in bagno. Mi lavo in piedi di fronte al lavandino, passando la spugna su una saponetta al tè verde e cetriolo. Odore fresco prima di andare a suonare a Ludovico, che vive alla porta accanto. «La cena è pronta!» La loro cena: risotto al formaggio, frittata e gelato alle noci, mentre io dissimulo uno yogurt, tanto per mantenere il ruolo della brava anoressica e non scivolare giù dal piedistallo invisibile.

Per non far scappare il gatto Otello, lui apre uno spiraglio sulla serena testa di un Buddha indiano circondato da ninnoli di legno ed io rubo quello scorcio di vita tranquilla, calda e accogliente che trova un’analogia perfetta nel mini-giardino succulento sistemato sul frigo di Ethel.

 Sky urla dallo schermo in un clangore di spade fantasy che non riesco ad apprezzare e mi ritiro nella “mia” camera momentanea, dove occhieggiano i led rossi di uno stereo in disuso e un computer giace morto sulla scrivania, come un vecchio dinosauro che sarà ancora lì al mio risveglio.

Domani si chiude il Salone, ma ci sarà ancora un incontro che si preannuncia interessante.

 E poi il viaggio: lento, sferragliante e carico come un’antica carovana del west.

 

La mattina, faccio colazione guardando La Principessa Zaffiro e dosando sapientemente le mie porzioni di mele e caffeina assunte sotto varie forme per rilasciare energia nell’arco di ben ventiquattro ore.

Anche oggi le ragazze all’ingresso del palazzo regaleranno lattine di coca-cola zero accompagnandole con il solito slogan robotico. La miscela chimica e l’anidride carbonica alimenteranno il mio cervello per un po’.

 

Scena tre: La viajera de las cuatro estaciones

Il treno riposa sul binario 9 mentre io riprendo fiato e do un calcio al mio borsone troppo pesante per farlo passare dalla porta semi-rotta del vagone di seconda classe.

Mi siedo.

Accanto a me un algerino sistema le stampelle e si toglie il tutore che gli strige un piede. In un impulso vergognosamente opinabile, penso che la ferita sicuramente puzzi, invece emana un buon odore di talco. Mi rilasso. Accendo l’mp3 player del telefono. Scelgo un romanzo pescando nei sacchetti accatastati sul sedile.

Per un attimo alzo gli occhi sul paesaggio che inizia a scorrere piatto fuori dal finestrino.

Ho voglia di rivedere il mare abbracciato dalle colline;

Ho voglia di parlare con Cassy a tu per tu, dopo una settimana di telefonate-fiume cariche di entusiasmo infantile.

Ma so che sarà difficile rientrare nelle leggi della biologia.

Sospiro.

Sono rassegnata. Arrivata a casa, nel giro di pochi minuti ripiomberò nel buio della routine dell’ingrasso da allevamento.

Una ragazzina fa svolazzare le unghie laccate di un giallo acceso: sembrano farfalle, contro il paesaggio.
Mary Ellis sogghigna riflessa nel vetro. A quanto pare non esistono vie di mezzo tra l’apsaras fluttuante che sogno di diventare – signora delle acque delle nubi bianche  – e la trombettista boteriana che sono costretta a essere.
http://youtu.be/1Rm-Fu8rBms

martedì 15 ottobre 2013

HEART-SHAPED TAMAGOYAKI


 
Non sono una fan delle feste commerciali che t’impongono di comprare cioccolatini e mazzi di rose a peso d’oro, ma mi capita di lasciami trasportare in un vuoto pericoloso che smuove i vecchi imprinting.

Come una stupida ragazzina sentimentale stampo due copie di una foto scattata quattro anni fa in un mini-market di Tokyo. Erin insieme alle due commesse, il giorno prima della partenza. Sul retro traccio ideogrammi incerti che si compongono in qualcosa che dovrebbe suonare tipo. “Grazie per esservi prese cura di me”: ragni d’inchiostro nero, grumi di fuliggine che trasportano le caramelle di zucchero del mio cuore da una sponda all’altra di due contenenti.  E poi il tocco più doloroso: l’onniscienza di Google Panopticon visualizza la mappa stradale del quartiere, ingrandisce le foto delle case e mi riporta sui marciapiedi che ho conosciuto. Con la crudeltà indifferente di un gioco virtuale mi trasforma in un omino giallo a spasso in una realtà d’incroci e paralleli – forse se zoomassi ancora di più sull’angolo della strada, rivedrei i due maggiordomi sospettosamente altolocati in attesa di un pezzo grosso da scortare in qualche villa dei dintorni.

Copiare l’indirizzo del Lawson vicino alla stazione è una sfida alla logica urbanistica, anche scegliendo la traslitterazione fedelmente piena di trattini e vocali allungate. Piuttosto, chissà se le mie “mamme” lavorano ancora là. Il dubbio blocca per un attimo il mio progetto ma mi rianimo subito. Non avevano l’aria di stagionali da part-time e la più anziana era sempre al suo posto dietro al bancone, a qualsiasi ora, con la gentilezza automatica dell’eterna litania: “Benvenuto, Sommo Signor Cliente!” inscritta nel suo DNA.

Eccomi allora all’ufficio PT con una busta da affrancare in maniera arcaica e un po’ di tristezza residua sul fondo della voce «Una normale lettera per il Giappone, per favore» «Chi siete? Dove andate? Cosa Portate? Un fiorino!» risponde un’impiegata apatica strappata dalla pausa cappuccino delle dieci. Sospiro e, guardando il retro bianco del biglietto coprirsi di strisce adesive, immagino la lunga carovana postale di Marco Polo srotolare la Via della Seta.

Ok, una parte della missione è compiuta, un pezzo di carne viva è partito, ancora palpitante, trascinando ricordi tinti dall’ambra del tempo.

Passo davanti a una pasticceria. Mi faccio dare un sacchettino di dolci per la maestra Chieko, anche se non la vedo da un mese. Vorrei andare alla scuola, adesso che il mio corso è finito, solo per poterla salutare, ma so che si è presa il mercoledì libero e decido di lasciare il regalo al direttore – sfiorata dai suoi modi calmi e pacati: forse è meglio così per evitare l’imbarazzo della consegna. Ci sentiremo tranquillamente con un messaggio o una mail quando il mio pensiero l’avrà raggiunta e si sarà decantato.

 

Cassy è un caso a parte, molto più difficile da risolvere. Mi piacerebbe ragalarle qualcosa di più.

Seleziono e scarto oggetti che allungheranno la futura lista di possibilità natalizie: un lettore cd con una moderna presa usb per sostituire i sobbalzi asmatici di quello che adesso troneggia sul frigorifero; l’ennesimo libro; un massaggio facciale in un beauty center della mala cinese (mille volte le avevo detto o chiesto di curarsi di più per allontanare lo spettro di D dal viso stanco) … La paranoia economica mi lascia spossata e mi limito a esaminare le borse e i gioielli del solito mercatino di cianfrusaglie fricchettone mentre torno a casa nella sera tinta di lavanda e di buio improvviso.

Mi fermo sulla piazza del mercato. Tanto lei non sarà ancora tornata. E mi chiedo se è possibile trovare da qualche parte un buono della Banca del Tempo, che allunghi le giornate e ci permetta di passeggiare insieme prima di cena come facevamo un secolo fa.

 

Alla fine registro qualche cd, stampo uno schizzo di Picasso – un ritratto della mamma da giovane con Alissa – e sistemo tutto sul tavolo accanto a un piatto con tre frittatine a forma di cuore ed esco.

Suono da Hortensia che mi accoglie con il suo neo-nipotino in braccio e la guancia gonfia per un ascesso: anche per lei ci sono delle tamagoyaki, che a quanto pare dovranno aspettare.

 

 

lunedì 14 ottobre 2013

SHAKUGAN NO SHANA SECOND SEASON


 


“Shakugan no Shana Second Season” si apre con una lunga digressione che verte sul genere “scolastico”. Dopo aver sconfitto il male, Shana e Yûji Sakai tornano alla loro tranquilla vita di liceali, circondati dai compagni di sempre, con le loro storie d’amore. Ike, il migliore amico del ragazzo non ha ancora trovato il coraggio di dichiararsi a Kazumi Yoshida che, nonostante abbia scoperto l’esistenza dei divoratori di spiriti – i Tomogara – e dei Torch – i corpi vuoti che restano come simulacri in attesa che la fiammella dell’anima si consumi – continua a essere innamorata di Yûji e a rivaleggiare per questo con Shana. A questo schema classico già collaudato nella prima serie si aggiungono elementi di complessità. Con un espediente narrativo molto abusato negli anime, una nuova  studentessa si trasferisce proprio nella classe dei protagonisti.[i]
 
Fumina Konoe è una strana adolescente che, appartenendo a una famiglia molto agiata, sembra vivere totalmente fuori dal mondo: non conosce la mensa, non sa trovare i libri nella cartella … Anche questo è un passaggio standard in moltissimi cartoni animati, di qualsiasi genere essi siano. Si potrebbe pensare a Haru, l’alieno di “Tsuritama”, o a Tomoyo – l’amica benestante di Sakura (CLAMP) – ma gli esempi più prossimi sono i personaggi di “A Certain Magical Index” (Kazuma Kamachi / Haimura Kiyotaka): la stessa Index è una giovane suora della chiesa anglicana che non è mai stata a contatto con le persone comuni, ma la piccola Last Order e soprattutto la misteriosa Hyouka Kazakiri sono più interessanti per il nostro discorso. Infatti, la prima è un prototipo sfuggito a un esperimento di clonazione volto a potenziare le capacità offensive di un soggetto particolarmente dotato mentre la seconda è un’entità generata dalla concentrazione di energia psichica presente all’interno di una Città Studio in cui si perfezionano i poteri ESP.



 
Nonostante le differenze nel character design, la somiglianza con Konoe è evidente perché ciò che colpisce e insospettisce Shana e Yûji è il fatto che Konoe sia praticamente identica a Hecate, una delle fondatrici di Bal Masqué, l’organizzazione che raccoglie tutti i più potenti divoratori. I tratti somatici e anche il cognome aristocratico (che significa “guardia imperiale”) lasciano pochissimi dubbi sull’origine della nuova compagna di scuola ma il suo rapporto con la Trinità non è del tutto chiaro; c’è solo un indizio a guidare lo spettatore attento. Alla fine della prima serie Hecate aveva tentato d’impossessarsi della forza vitale del “frammento del tesoro” (“ hôgu”) racchiuso nel cuore di Yûji: il rituale è la chiara sublimazione di un atto sessuale, esattamente come avveniva nel contatto tra Perceiver e Receiver nel romanzo “1Q84” di Haruki Murakami. Nel libro Fukaeri era una diciassettenne scappata da una setta nella quale era considerata una “mother”, un’ancella capace di percepire e trasmettere messaggi. Il suo “rapporto metafisico” con Tengo altera il sistema invisibile dei folletti “Little People”, di solito incaricati di generare un clone – ossia una “daughter”; analogamente in “Shakugan no Shana”, le emanazioni mentali derivate dall’unione di Hecate e Yûji hanno plasmato Fumina che, pur avendo l’esteriorità della matrice originale, non ne condivide l’aura magica. Senza conoscerne i motivi profondi, la ragazza si sente subito attirata da Sakai e anche lui sviluppa un istinto protettivo nei suoi confronti, facendo ovviamente arrabbiare sia Shana sia Kazumi, entrambe gelose della nuova inaspettata rivale.

 





Nei triangoli amorosi si aggiunge la coppia formata da Eita Tanaka e Mitake Ôgata. La loro storia, che nella prima serie era rimasta molto defilata sullo sfondo, in queste puntate assume un certo rilievo narrativo perché lui è uno degli aiutanti della Flame Haze Margery Daw, incaricata di mantenere l’equilibrio tra vita e morte, mentre lei è una ragazza qualunque, spensierata e ironicamente poco femminile. Se dovessimo cercare un riferimento “storico”, l’ideale potrebbe essere Yû Hazuki (Mila di “Mila e Shiro”(Shizuo Koizumi / Jun Makimura): non solo Mitake somiglia molto all’eroina della pallavolo, ma pratica proprio questo sport, metafora della sua determinazione.


 


 
 Parte di questo spirito combattivo contagia anche lui, che resta a fare da eterno secondo al duo Margery / Keisaku fino a quando non scopre la profondità dei proprio sentimenti e decide di abbandonare la lotta ai poteri occulti che infestano la cittadina di Misaki per evitare di coinvolgere persone innocenti nelle battaglie. La diversità psicologica divide Eita dal suo inseparabile amico Keisaku che, sempre più innamorato della provocante Margery, decide di tentare il tutto per tutto per entrare a far parte di un’organizzazione denominata Outlaw, la quale funge da base logistica e da supporto per le missioni dei Flame Haze in giro per il mondo. Il dilemma morale di Tanaka, che non riesce a scegliere tra la tranquillità della vita quotidiana e la grande sfida della lotta contro il Male, porta ad aprire una parentesi narrativa sul passato di Margery.

Siamo a New York subito dopo la crisi finanziaria e la bionda, che fino ad allora aveva lavorato da sola, prende sotto la sua protezione un ragazzino che desidera affinare i propri poteri di evocatore. Yûrii Chvojka è appena arrivato dall’Ucraina e non sa come gestire lo spirito Valac che si è manifestato dopo che la nave sulla quale il bambino viaggiava con tutta la famiglia era stata distrutta da un kraken[ii].
 


 
Come sempre i nomi dei personaggi sono indicativi d’interi microcosmi concettuali: il cognome “Chvojka” rimanda all’archeologo che scoprì i resti della cultura Zarubinsky, insediata a nord del Mar Nero tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C.; mentre nei testi medievali e alchemici, il demone è uno dei signori dell’inferno, comandate di trentotto legioni.


 

Il flashback è molto breve ma permette una serie d’interessanti paragoni oltre ad alcune riflessioni di carattere socio-storico. Il nemico da sconfiggere questa volta è Annaberg un denizen dall’aspetto sinistro e bizzarro: sotto un completo da ispettore di film noir anni Trenta, la sua testa non ha tratti umani ma la forma di un misuratore di pressione. Il suo compito, quindi, è di rilevare i cambiamenti che portano un’evoluzione dell’umanità, la sua presenza è una spia degli “strappi” di cui parla lo scrittore Alessandro Baricco nelle sue “Palladium Lectures” quando descrive i mutamente nel gusto collettivo e qui l’Empire State Building è l’indice del raggiungimento di un diverso grado di civilizzazione. Volendo cercare un paragone nella tradizione mitologica (e poi visiva), l’edificio di Manhattan è simile alla biblica Torre di Babele rappresentata da Pieter Brügel il Vecchio, trasfigurata in seguito da artisti visionari come il polacco Jacek Yerka.



 

Comunque, al di là dei riferimenti alla cultura “alta”, la finestra sulle esperienze vissute da Margery permettono di conoscere meglio il personaggio e di tracciare alcuni possibili paragoni. Se l’atmosfera riporta inevitabilmente agli anni ruggenti descritti in “Chrono Crusade”, la bella Flame Haze potrebbe inizialmente ricordare Rosette, la protagonista della serie di Daisuke Moriyama – sia nell’aspetto sia nel carattere apparentemente rude – ma l’insieme dei tragici eventi che segnano la sua vita la avvicina di più a Satella Havernheit, una facoltosa “jewel master” rimasta orfana dopo l’attacco di un demone.



 

Infatti, la stessa sorte è toccata ai genitori di Margery, che da allora è alla ricerca del mostro che sprigiona fiamme argentate.

L’incertezza sull’identità del nemico genera suspense e solo in un secondo momento scopriamo la verità: il possessore di quel particolare tipo di fuoco è proprio Yûji che custodisce in sé il gioiello chiamato Reiji Maigo (il Bambino Sperduto di Mezzanotte), il pegno d’amore tra Pheles, uno spirito che controlla le tempeste e un umano di nome Johann, figlio di una nobile casata.


 
 Suo padre Georgius era un alchimista che faceva ricerche sulla pietra filosofale e che a un certo punto tenta di sacrificare il ragazzo. È d’obbligo una piccola digressione sui nomi che rivelano ancora una volta la fascinazione dei giapponesi per il romanticismo di matrice teutonica. Infatti, la coppia Pheles /Johann è un chiaro riferimento a Marlowe o al “Faust” di Goethe  in cui si racconta di uno studioso che, nella sua spasmodica ricerca della conoscenza, evoca un diavolo stipulando con lui un patto: l’onniscienza in cambio della propria anima. Secondo alcune fonti, la figura tragica s’ispirerebbe a una persona realmente esistita, Johann Georg Faust, un mago itinerante del Rinascimento tedesco.

Il fantasy soprannaturale e la vita scandita dalle date del calendario scolastico sono uniti dall’arrivo effettivo sulla scena di Wilhelmina Carmel che nella prima serie compariva in un lungo flash-back sull’allenamento di Shana nel Tendô-kyû e ora invece si presenta nella città di Misaki come tutrice della ragazza. Come già accennato in precedenza, il character design di Wilhelmina riprende il feticismo per le cameriere-combattenti che torna in innumerevoli anime e manga di diverso genere. [iii]
 
Mentre altre sue hanno dei tratti somatici più realistici, in lei i capelli rosa sembrano voler rispettare i canoni moe, capaci cioè di suscitare l’amore dei fan come in “Hanaukyo Maid Team”, ma senza cadere nella trappola della facile allusione sessuale.



 
 
In un primo momento, Wilhelmina è una persona del tutto normale che, nonostante la sua idiosincrasia per i fornelli, si dimostra sollecita nell’accudire la sua protetta. In questa fase il personaggio si contraddistingue in una serie di gag comiche segnate dal linguaggio che termina ogni frase con la forma gentile del verbo, in maniera persino esasperata[iv]. Solo in seguito riemerge l’aspetto combattivo della governante che, con il nome di “Manipolatrice di Oggetti” è legata allo spirito Tiamat e, indossando una maschera rituale – simile alle maschere sciamaiche dedicate al dio-volpe – , è in grado di generare dei nastri con i quali immobilizzare i nemici. Si tratta di un altro classico ricorrente nei fumetti nipponici, ispirato in parte dalle leggende popolari legate all’arte del bondage e in parte motivate da un gusto sottilmente erotico.


 
Nel passaggio dal contesto reale a quello prettamente fantasy, “Shana” utilizza gli stessi temi di “Blue Exorcist” in cui un normale studente scopre di essere discendente di Satana e di poter sprigionare delle terribili fiamme blu e quindi decide di mettere questa capacità demoniaca al servizio del Bene.[v] “Shakugan no Shana” condivide con la serie di Kazue Katô anche i personaggi, anche se le due versioni di Mefostofele sono talmente diverse da non sembrare nemmeno paragonabili: in “Ao no Exorcist” Mephisto Pheles, che in pubblico utilizza il nome Johann Faust V, è sia uno degli otto Re dell’Inferno (noto come “Signore del Tempo e dello Spazio”) sia il direttore dell’Accademia della Vera Croce dove vengono addestrati gli esorcisti. È in dandy sempre molto elegante nel suo abito chiaro con cilindro e guanti e può trasformarsi in un cagnolino bianco.


 
Al contrario, in “Shana” Pheles è una donna innamorata e passionale, dai lunghi capelli verdi e indossa un costume attillato con due langhe spalline a forma di serpente: un outfit che ricorda molto i classici videogame fantastici o i giochi di ruolo ambientati in un medioevo alternativo (un esperto del campo saprebbe senz’altro trovare paralleli calzanti, forse “Claymore” di Norihiko Yagi o “Sword Art Online” di Reiki Kawahara e Tamako Nakamura).




 

Il Reiji Maigo è noto per essere il simbolo del legame tra i “Due Amanti Eterni”, una figura drammatica che ricorre nella tradizione letteraria, sia a Oriente sia a Occidente. In “Shana” questo vincolo è materialmente rappresentato da un oggetto dotato d’ingranaggi, simile a un orologio, che diventa bersaglio dei desideri del Bal Masqué a causa della sua potenza come riserva di energia, capace di attivare il processo chiamato Taimei Shihen (Il Salmo del Grande Ordine) che condurrà alla creazione di una nuova legge universale. Cercando un riferimento nella mitologia, è facile citare le diverse leggende sull’Apocalisse presenti in quasi tutti i sistemi cosmogonici. Se invece si circoscrive il contesto ai recenti mixed media nipponici, il richiamo più prossimo è forse costituito dalla ricostruzione dell’Arca da parte del Conte del Millennio, antagonista demoniaco della serie “D-Gray Man”. Nel manga di Katsura Hoshino, l’Arca (Hakobune) è un artefatto cubico - a metà strada tra un database informatico e la Pietra Nera della Mecca -  fluttuante che contiene una città e che permette di spostarsi a piacimento da un luogo all’altro.

Come avviene nella tradizione, l’avvento di un nuovo ordine è preannunciato dall’arrivo di un messia oscuro. In questo caso, l’ultimo avversario da battere per salvare la città di Misaki e il mondo intero è il “Grande Assassino” Sabrac, noto anche come “Lama distruttiva”; come nemico giurato di Wilhelmina, compare era comparso anche durante la Grande Guerra, quando la Flame Haze Mathilde Saint-Omer (la contraente di Alastor prima di Shana)[vi] aveva perso la vita nella battaglia finale.  Il suo principale potere consiste nel provocare ferite infette che lasciano stigmate sugli avversari.
 

 Non si trovano simili demoni nei grimori medievali o gotici ma nella Bibbia ebraica si parla di Sabnak, uno dei Marchesi dell’Inferno, e signore delle guerre. In “Shakugan no Shana” è uno spadaccino dal volto coperto di bende e la sua collocazione in un contesto storico /mitico riporta in primo luogo alle leggendarie bande di assassini del folklore giapponese, chiaramente ricalcate sulla realtà sociale dell’Epoca Edo (1600-1868). Anche se in genere l’aspetto è meno truculento, l’idea torna in molti anime /manga di grande successo: penso a Black ● Star di “Soul Eater”(Atsushi Ohkubo), membro rinnegato del famigerato Clan della Stella, del quale ha rifiutato la violenza; e lo stesso vale per Sotarô, medico protagonista di “Kaitai Shinsho Zero” (Chiyo Kenmotsu) o per Killua Zaoldyeck, uno dei personaggi principali della lunghissima serie “Hunter x Hunter” di Yoshihiro Togashi.
 




 Tuttavia, pur condividendo con questi esempi l’impostazione e la prevalenza cromatica del blu,  Sabrac mantiene intatta l’aura di disperazione che, nei toni sempre cupi dell’ambiente che lo circonda, sembra quasi giustificare con argomenti filosofici la sua crudeltà. Un particolare importante crea il senso di continuità caratteristico della serie: anche se si scoprirà solo in seguito, Sabrac è innamorato di una Mystes, Papagena, che compare all’inizio della stagione creando un mondo illusorio grazie al potere del suo spirito – Mare, che significa “incubo” in inglese. Il nome della giovane è evidentemente preso dal “Flauto Magico” di Mozart, dove questo personaggio è una ragazza fatata che appare al suono di un carillon incantato; qui invece ha la capacità di materializzare scenari onirici perfettamente coerenti, generando il sommovimento del Tempo e per questo motivo può essere considerata complementare alla “Lama Distruttiva”, che profetizza l’inversione dello Spazio.

Infine, rispettando l’alternanza tra temi quotidiani e sovrannaturali, “Shakugan no Shana 2” ha un secondo finale che, allontanandosi dagli esiti della battaglia tra Flame Haze e Tomogara, si concentra su un altro scontro: quello tra Shana e Kazumi Yoshida per il cuore di Yûji. Le due ragazze decidono di mandare un biglietto a lui, invitandolo ad un appuntamento: ciascuna lo aspetterà alla stessa ora a una delle due uscite della stazione e quindi la sua presenza indicherà la scelta definitiva, ma allo scoccare dell’orario fatidico Yûji non si presenta né da un lato né dall’altro e sembra scomparso. È il classico cliffhanger che lascia con il fiato sospeso e invita a seguire gli eventi della serie successiva.

Nel complesso, dunque, “Shakugan no Shana Second Season” è un mix piacevole e ben equilibrato che gioca con gli stereotipi di genere, mescolandoli a una punta di “cultura alta”.

http://youtu.be/BZ2Jk9vrsew



[i] La frequenza con cui negli anime compare uno studente trasferito (tenkôsei) farebbe supporre che questo sia un fenomeno abbastanza normale in Giappone, cosa che invece non corrisponde al vero
[ii] Il kraken è un mostro marino, una sorta di piovra o calamaro gigante il cui mito, mescolando le leggende nordiche alle rilevazioni scientifiche di Linneo, si è sviluppato soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento. Nelle storie marinare, si trattava di una creatura aggressiva che attaccava gli uomini corrotti, ad esempio i pirati. Questa figura ha influenzato la cultura a diversi livelli e in varie epoche, basti ricordare, la scena della tempesta in “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne, la celebre poesia di Alfred Tennyson intitolata proprio “The Kraken” (1830) o la serie a fumetti spagnola creata da Antonio Segura e Jordi Barnet, o ancora il ruolo fondamentale della creatura nel film “Pirati dei Caraibi Il Forziere fantasma”.
[iii] Basta dare un’occhiata alle undici pagine riservate alla voce “maids” del database del sito www.anime-planet.com per rendersi conto della diffusione del fenomeno.
[iv] La caratterizzazione linguistica attraverso la sottolineatura di una forma grammaticale richiama quella ricorrente in “Shinryaku! Ika-musume” di Masahiro Anbe dove il suffisso interrogativo “-nai ka” riprende il nome della protagonista.
[v] Qualcosa di analogo, anche se in un contesto diverso, avviene anche in “Dead Man Wonderland” in cui Shiro, una ragazza albina che, oltre ad essere amica del protagonista e a dimostrarsi particolarmente protettiva nei suoi confronti, ha una seconda personalità omicida, il Wretched Egg (Uovo Marcio).
[vi] Il cognome Saint-Omer si riferisce a Godfrey de Saint-Omer, fondatore dell’Ordine dei Templari, ed infatti Mthilde è in grado di evocare dei guerrieri in armatura che sconfiggono per lei il nemico. Controlla quattro diversi tipi di cavalieri: pesanti, leggeri, per attacchi a lungo raggio e cavalieri comuni. Le armature medievali sono ricorrenti nella rappresentazione nipponica degli eserciti di carattere religioso e tornano quasi nella stessa forma in diversi anime / manga (basta pensare a “Hellsing” o al più recente “A Certain Magical Index” dove i due schieramenti contrapposti si avvalgono di compagini di cavalieri in armatura: da un lato i Tredici al servizio della Chiesa Romana e dall'altro i Knight of England che proteggono le coste britanniche dagli attacchi nemici.

lunedì 7 ottobre 2013

MORTI E NON-MORTI DI LAMPEDUSA


Lampedusa (Pelagie AG)
Certe storie fanno temporaneamente dimenticare le stupide ansie per gli incastri impossibili del palinsesto televisivo.
Kebrat che si risveglia, viva, in una fila di 195 cadaveri strappati al mare - "morti clandestini", direbbe qualcuno - potrebbe diventare il simbolo di tutte le tragedie annunciate, destinate a ripetersi nell'indifferenza generale. Adesso si parla di modificare la legge Bossi-Fini che stigmatizza i migranti e persegue i soccorritori invece degli scafisti; si propone il premio Nobel per la Pace agli abitanti di Lampedusa, ma le contraddizioni saltano agli occhi perché, spenti i riflettori dell’informazione televisiva, il CIE sovraffollato, l’isola e tutto il bacino territoriale a essa collegato vengono abbandonati, dimenticando che si potrebbe trarre persino un beneficio turistico e culturale da un gestione sostenibile della situazione. Si tirano in ballo progetti di cooperazione euro-mediterranea e programmi educativi che favoriscano l’integrazione (quando si dovrebbe cominciare a considerare l’idea dell’interazione e cancellare la “E” di “espulsione” dalle sigle): tutte utopie difficilissime da realizzare, se non altro perché servirebbero fondi decennali o addirittura ventennali, senza contare che gran parte del disagio socio-economico dei Paesi subsahariani è causato da una serie di fattori messi in moto dagli interessi occidentali. La lettura ingenua di Roberto Fico, depurata dagli slogan a cinque stelle (che sembrano frutto di un nuovo tipo di gregge), ha ragione su un punto: la posta in gioco è molto alta e le lobby delle armi e del petrolio non sono di certo pronte a cedere il passo. È necessario allora pensare a un intervento diretto e concreto. Fabio Fazio suggeriva di fare la “scelta coraggiosa” dello jus solis, sul modello della cittadinanza americana, ma c’è chi dagli Stati Uniti vorrebbe prendere un altro esempio e blindare ancora di più le frontiere, magari con un bel muro, sentinelle armate e barriere elettrificate. Alcuni tremano davanti “all’invasione dei barbari”, altri provano a invocare l’aiuto dell’Europa, mettendo nel cassetto l’anti-europeismo che avevano sbandierato fino a ieri perché, dicono le statistiche, l’Italia nella maggior parte dei casi è solo una tappa, una terra di passaggio verso altre nazioni più ricche e attraenti. A quale percentuale è arrivata da noi la disoccupazione tra i giovani? 40% o siamo già al 50? È probabile che l’eldorado sognato dai più poveri sia altrove: in Francia o magari in Germania ma ora la troika che comanda a Bruxelles è impegnata in un’aspra guerra monetaria che taglia fuori i deboli in nome di quei “finanziorami” virtuali dei quali parlava Appadurai negli anni Novanta e che adesso determinano la vita quotidiana di milioni di persone.  

Qualcuno ricorda gli accordi firmati dall’allora premier Silvio Berlusconi – oggi condannato e forse decaduto (?) – e il presidente libico Gheddafi, improvvisamente bollato come dittatore pochi mesi dopo? Controlli severi nei porti di partenze, carceri in mezzo al deserto e deportazioni forzate che si trasformavano in carovane della disperazione.

Qualcuno ricorda gli scandali degli sbarchi seguiti alle Primavere Arabe, le persone ammassate in uno spazio angusto con uno o due bagni a disposizione? Non mi riferisco alle condizioni disumane del viaggio né alla maniera terribile in cui tanta gente ha trovato la morte al posto della speranza. Sto parlando della realtà di un luogo che dovrebbe essere d'accoglienza e invece è di detenzione, un luogo che esprime tutto il rifiuto di una cultura dominante che si arrocca nel mito dell'omogeneità. Sul barcone del naufragio si sono sviluppate le fiamme, i corpi sono stati avvolti dal fuoco prima che le strutture fatiscenti cedessero … L’immagine rosseggiante e atroce di un uomo trasformato in una torcia riporta a un altro contesto, apparentemente lontano ma non così dissimile: quello delle acciaierie TyssenKrupp di Torino. Dopo cinque anni di processo è stata pronunciata la condanna definitiva per l’amministratore delegato e per gli altri responsabili della dramma costato la vita a sette operai, ma i soldi del risarcimento sono una goccia per un colosso multinazionale e sicuramente nemmeno la prigione può sanare l’ingiustizia di fondo, perché nella realtà le morti sul lavoro e le morti per il lavoro non si fermano e nei primi sei mesi del 2013 ci sono state già 700 (contando anche gli incidenti in itinere). Argomenti distanti ma accomunati dallo stesso abisso di silenzio.

Al di là del clamore mediatico del momento, una domanda s'insinua inquietante: NESSUN MEDICO CONTROLLAVA L'EFFETTIVO DECESSO DELLE PERSONE RECUPERATE NEL VENTRE DEL RELITTO? E se quella ragazza non avesse aperto gli occhi in tempo?

 Domenica. Prima serata. Massimo Gramellini racconta la notizia della “resurrezione” di una donna africana con il suo solito tono sentimentale, come se fosse la favola della buonanotte. Solo mia madre, forse in veste di medico, coglie la fretta nascosta nelle parole e s’indigna ancora di più, non tanto per i fatti, stavolta, quanto per il messaggio che passa sottotesto, quasi inascoltato. Ho l’impressione che gran parte dell’informazione oggi funzioni in questo modo: si ammorbidiscono i contorni zuccherando la pillola come se si parlasse con dei bambini. In effetti, da secoli la comunicazione di massa si base sull’iper-semplificazione ma la rapidità degli scambi a tutti i livelli ha esasperato gli stilemi dell’oralità. Tutto deve essere divulgativo e accattivante per sperare di catturare l’attenzione di un pubblico annoiato; e quindi l’abilità sta nel far passare il contenuto informativo sostanzioso sotto forma di affabulazione da piazza, in cui però l’analisi critica perde spessore. Il rischio di banalizzazione è dietro l’angolo e il continuo surfing tra gli stimoli rende la conoscenza sempre più superficiale.

http://youtu.be/L3z4pun9rAo

giovedì 3 ottobre 2013

MAGIK WITHOUT TEARS


Giovedì.

Apro gli occhi sullo schermo liquido del cellulare, che vibra segnando le 5.30. Quella mezzora, rubata rispetto alle solite 6, mi lascia stordita, con la testa piena di piombo fuso e lapilli. I trenta minuti per prendere la pastiglia sono attimi strappati a un sogno intermittente come il posteriore di una lucciola l’ultimo giorno d’estate. Il mondo fuori è ancora color lavanda.

 

«Quanto ne hai ancora?» ha chiesto Cassy ieri, estraendo dal cassetto due blister cominciati di alendronato. «Probabilmente pensavo di averlo finito e mi sono fatta dare una scatola nuova … Con ‘sta storia delle marche che cambiano ogni volta, non ci capisco più niente!» Io condividevo il destino di milioni di vecchiette confuse, in fila al banco, ognuna con un tessera sanitaria in mano e un’ indicazione controfirmata dal luminare di turno: smarrite, rassegnate e rabbiose quanto le donne ai mercati annonari della guerra di Russia. In coda paziente tra le matrone sgomitanti, ho pensato di smettere del tutto la cura e la stessa idea torna insistente anche ora, mentre lavo i piatti della cena che non ho consumato, aspettando che le lancette girino a sufficienza e un avviso mi consenta di preparare la colazione.

Chiudo l’acqua e butto via il detersivo che schiuma sull’inox spandendo un profumo sintetico di lime e menta. “Che senso ha tanta abnegazione per un inesistente miglioramento sulle percentuali di sbriciolamento delle ossa?” anzi, se guarissi sul serio – forte e invincibile come Popey –lo Stato mi toglierebbe anche la misera indennità vidimata da una commissione di Esperti. A causa della follia certificata dalla MOC, sono stata bandita e maledetta con beneficio d’inventario: dicono che il mio sacrificio garantirà l’equilibrio sociale dell’ipocrisia. Sempre sia lodata la Legge dell’Apparenza, se mi garantisce uno stipendio!

 

Tempo rimanente: un quarto d’ora. È buffo, basterebbe sedermi perché adesso l’acido sfoderasse il suo effetto collaterale perforandomi l’esofago. Sarebbe più semplice che bussare dal medico per farmi prescrivere del pentobarbital, ammesso che nel mio caso qualcuno conceda l’eutanasia del sonno (ma se un terrorista americano può ottenere una clemenza anestetizzante, per quale motivo non dovrei averla io che sono lontana anni luce dal farmi esplodere?).  Se solo mi sdraiassi, un cupido ecuadoriano – con una coroncina di candide piume – scoccherebbe la sua freccia al curaro aprendo una sacrosanta falla nel mio flusso ematico per offrirmi una morte veloce come il desiderio.  

L’autonomia della scelta corrosiva mi seduce e mi spaventa, limpidissima nei riflessi verdi dell’alba che sorge, ma poi – driiiin – mi riprendo dalla trance e la finestra delle ipotesi si richiude su un altro scatto della routine settimanale.

Sono così diligente che peso due grammi di polvere d’orzo solubile per facilitare l’assorbimento cellulare delle sostanze chimiche. In cucina ho una bilancia elettronica che spesso lampeggia erroneamente lanciandomi senza pietà in balìa della sorte. Mi piacerebbe vedere gli strumenti che usa Aleister nel retrobottega. “Bisogna che ordini delle altre bustine”. Se decido di continuare la terapia, devo farlo bene, e la connivenza del farmacista è un elemento essenziale dell’alchimia. Dentro a un bricco turco per il caffè, i pacchettini di calcio avvolti nella carta sembrano micro-dosi di droga purissima, senza l’aggiunta peccaminosa di eccipienti, edulcoranti o borotalco per farne aumentare il gusto e il peso.  L’imbroglio sarebbe inutile dato che, per reverenza gerarchica, il povero dottore non mi fa pagare niente per sua fatica di precisione arcaica. “Mi ricorderò di compragli un regalo per il prossimo Natale. O magari anche prima.” Che cosa può piacere a una persona del genere, gentile al limite della trasparenza, col camice abbagliante e lo stemma del caduceo sul taschino, giusto sotto il fermaglio di un Parker sponsorizzata? Domani pomeriggio potrei fermarmi in erboristeria e cercare una saponetta con un buon profumo maschile (qualcosa tipo rum e cioccolato) e registrare una compilation di jazz raffinato che induca una piacevole esperienza extra-corporea nel calore svedese di un bagno caldo. Ce lo vedo, sfumato nel vapore dopo una giornata di lavoro senza pause.

Recuperare il gap finanziario scavato dall’alluvione sta diventando una missione impossibile per tutti i negozi del quartiere, compresa la farmacia che occupa un intero isolato, con i corridoi aeroportuali contrassegnati dalle insegne “BEAUTY” e “BABY”. Aleister non conosce più il concetto di “fine turno” ma in un anno di massacro non ha mai perso quel sorriso vago e vagamente britannico né la vocazione occultista celata nel nome stampato sul cartellino.

Con una capriola mentale che ha il prodigio delle intuizioni mattutine, rispolvero l’immagine di copertina di un album dei Beatles e focalizzo l’attenzione sul mago che sbuca tra le star dalla fila superiore. Cerco nell’archivio digitale e una piccola gemma pop, inconfondibilmente targata “Lennon McCartney”, rimbalza sui vetri colorando il clima morbido di maggio.

“Per ora ho intenzione di godermi la primavera: credo che rimanderò il finale a data da destinarsi.”

 

 

 

 

 

 

 
http://youtu.be/waImFgAm7Cc