sabato 29 settembre 2012

I MELONPAN DI MUCHA






Ecco arriva l’alba. So che è qui per me, meraviglioso come a volte ciò che sembra non è.




4.45 L’allarme del cellulare comincia a trillare con la sua allegria fuori luogo, quando il buio oltre la finestra semiaperta è ancora troppo fitto.

Apro gli occhi come un robot che deve oliare gli ingranaggi prima di funzionare e mi colpisce di nuovo, netta, la voglia di una colazione “normale” (con una brioche calda e un caffè macchiato alla cannella). Ogni tanto mi capita: mi alzo con la sicurezza che sia il giorno buono, pensando che potrei anche uscire e cercare un bar o un forno aperto e fregarmene di tutte le paure, e dei numeri, e delle conseguenze, e delle seghe mentali.

Poi però l’impulso torna indietro. Forse Eloisa, con i suoi turni di notte per le strade della città addormentata, saprebbe dirmi dove trovare un posto per comprare qualcosa di dolce a quell’ora impossibile, ma mi pare davvero complicato: telefonare, superare gli imbarazzi del segreto svelato, chiedere, magari farmi accompagnare …

No, faccio scaldare l’acqua nel bollitore, peso il Nescafé e intanto m’illudo che se fossi in Giappone sarebbe più semplice.

Nell’estate delle piogge, arrivavo al Lawson’s infondo alla strada, ancora in pigiama, e prendevo una bottiglietta di tè e un onigiri (splendido cosa ti consenta di fare un involucro con delle rassicuranti cifre stampate sopra!) e tornavo alla mia stanzetta per prepararmi ad affrontare la giornata. Dal lunedì al venerdì salivo sulla metropolitana fino a Gotanda ed entravo al Consulado Geral do Brasil per le mie interviste; il sabato mi dedicavo a qualche faccenda domestica con la goffaggine di una single che non ha mai caricato una lavatrice e improvvisamente assapora la soddisfazione di svelare il mistero di una lavanderia a gettoni e scopre la formula magica per la raccolta differenziata dei rifiuti.

Adesso, mangiando una fetta di melone maturo, rivedo gli scaffali del konbini pieni di merendine e di melonpan soffici e coperti di biscotto fruttato. Se fossi là, potrei trovare il coraggio. Per precauzione, rimarrei fuori con il mio bottino, accanto ai cestini di metallo con l’imboccatura cerchiata di rosso / verde /blu. Così potrei tornare dentro nel caso che la crisi di rigetto fosse troppo violenta. Le due commesse erano diventate come vice-mamme per me, uccellino smarrito nella grande metropoli. Avevo imparato a cinguettare una frase che avrebbe dovuto suonare tipo: «Susi, non posso mangiare né zuccheri né carne. Questo va bene?». In cento occasioni mi avevano aiutato a uscire quasi indenne da un’intricata foresta di segni.

L’8 maggio, avevo tentato di spedire un biglietto d’auguri dall’Italia, ma nemmeno i volenterosi postini nipponici erano riusciti a decifrare il mio concetto d’indirizzo creativo scarabocchiato sul retro della busta; la lettera era tristemente tornata al mittente sfregiata da un timbro, sigillata da un fuuin

Come se mi avessero restituito i miei demoni, senza appello.

Da quel giorno sono stata di nuovo sola e mi sono resa conto che non avevo mai domandato il nome alle due donne che mi avevano salvato, con la cortesia della loro educazione endemica e la calma della loro divisa a strisce biancazzurre. Se avessi tirato a indovinare, la più giovane sarebbe stata Noriko (che può scrivere con l’ideogramma di “occupato” o con quello di “carità”).

Lei e Shizu passavano la vita in una stanza illuminata di biancore artificiale e sistemavano le confezioni sulle scansie ordinate, in un turno infinito. Ma mi sembrava di vederle trascorrere il giorno libero (perché un giorno libero doveva pur esistere) a tagliare wüstel a forma di polpo sorridente da mettere nel bentô.

Ortensia è la persona più simile a quest’idea di maternità casalinga. Ortensia, con un nome che ricorda le schiere di zie incrociate dei romanzi latinoamericani, ha sacrificato quasi tutto alla ricerca di un caldo nucleo famigliare, esprimendosi solo con la morbidezza dei suoi abbracci e le sfumature delle sue matite che sanno disegnare donne forti come un sogno, trasparenti e floride come decorazioni di Mucha.

Ho l’impressione che Cassidaria sia un po’ gelosa: non di lei ma dell’immagine che io ho costruito intorno a lei. Credo, cioè, che la ferisca non essere parte di quel quadro rassicurante che profuma di sapone alla mandorla, di cucina e di torta paradiso.

http://www.youtube.com/watch?v=DVRf6zoFbyE  

martedì 25 settembre 2012

RED FOUNTAIN

24 SETTEMBRE.


Ormai è autunno anche per i calendari più sballati, non ci sono appelli.

Qualche tentazione dalle nuove collezioni nelle vetrine. Due signore discutono compunte della raffinatezza di un paio di francesine color tortora mentre io m’innamoro senza appello di un assurdo golfino d’angora rosa. È il genere di cosa che starebbe bene a Jane, di quei maglioncini che fanno tanto collegiale inglese … Con Jane avevamo fantasticato di andare celebrare i momiji che in questa stagione diventano rossi alle pendici del monte Hiei, a Kyôto, là dove si è rifugiata la leggendaria geisha Mille Draghi (ammesso che alle pendici del monte Hiei ci siano davvero degli aceri). In giapponese, la parola “autunno” si scrive con un carattere che combina “albero” e “fuoco”. Con rispetto riverenziale avremmo fatto insieme kanpuukai, godendoci quelle fiammate vegetali che vestono il paesaggio come pennellate pazze.

Me la immagino, Jane, a comprare wagashi in scatole di legno laccato, kimono di seta con obi altissimi e soffocanti e geta dalla zeppa impossibile (Molto, molto rock & roll baby!) mentre io girerei con un completo da sacerdotessa miko preso ai grandi magazzini Don Quijote e indagherei sui mostri dell’antica capitale, annotando formule sul mio taccuino di Kitty-chan.

Ma per ora siamo qui e per un provocatorio attacco d’arte performativa l’acqua della fontana in centro è diventata rossa come il sangue.

È autunno e, passando nel reparto pasticceria della Coop, mi viene voglia di mangiare un dolce. Un dolce purché sia … Ossignore … paste alla frutta, brioches al miele e cornetti al cioccolato, cannoli siciliani e soprattutto torte alla mela con sopra una spolverata di cannella … Getto un’occhiata al banco forno illuminato da neon bassi e spingo avanti il carrello … Potrei portare una primizia alle mie amiche: un gateau di Douche – così snobbisticamente francese … Da Grom è arrivato il gelato alla castagna (sesonal flavour). Rabbrividisco un po’.

È autunno e la prima zuppa dell’anno me lo conferma inconfutabilmente: zucca e porro. Potrei aggiungerci un pezzettino di zenzero, pesandolo con la frutta: non mi concedo la minima distrazione, ogni variazione aumenta i miei sensi di colpa. D’altra parte sotto al bricco di ceramica degli accendini, accanto ai fornelli, c’è il tappo di un passato di verdura della Plasmon, a mettere ben in chiaro che l’indipendenza è lontana chilometri, mentre salgo e scendo sulle montagne russe della mia percezione distorta.

È autunno. Le boutique lanciano nuove collezioni: mattone contro marrone scuro. Se penso alla sfumatura testa di moro, mi viene in mente il dottor Sam Bennett, con la sua flessuosa eleganza inequivocabilmente sessuale come quella di certi atleti neri delle Olimpiadi … Non ci posso fare niente, anch’io apprezzo la bellezza! E allora ancora una volta mi ritrovo di fronte alla bruciante ingiustizia dell’imperfezione. Oggi ho indossato un vestito di sintetico con motivi grigio-verdazzurri, troppo troppo fasciante. Prima di uscire ho consultato lo specchio. Forse mi dovrei vergognare, ma il mio armadio adesso comincia a restituirmi l’abbigliamento a maniche lunghe, e volevo sfoggiare la borsa di Alice, dopo che Cassy l’ha scroccata ottenendo quasi il cinquanta per cento di sconto. Ho infilato una maglia indiana per mitigare il probabile effetto insaccato e ho scattato un paio di foto – tanto per sicurezza. Fuori la gente non si è ancora arresa al brusco calo della temperatura: ci sono donne in canottiera e fighette che si baciano in punta di dita su strati e strati di cipria (Taffettà, caro. Taffettà!), conciate come se dovessero andare al mare. E poi una bambina bionda, così splendida che mi sembra accecante, che cammina all’indietro di fianco alla madre per salutare il disegno di un pollo in una gabbia che qualcuno ha fatto con la bomboletta sull’architrave del tunnel della stazione. Meraviglioso quadretto della famigliola felice che mi è venuto incontro nel pomeriggio ma le giornate si stanno accorciando e, quando esco dalla riunione, è già buio.

Non mi piace tornare in una casa sempre vuota. Mi sento soffocare. E così misuro i passi, inventando una strada che è sempre la stessa, ma di sera è meglio allungare un po’ il tragitto perché nel sottopassaggio non c’è più un’anima, e i graffiti sui muri gialli hanno un’aria minacciosa, dopo che anche il tizio pakistano che chiede l’elemosina ha smesso di suonare. Restano solo pozze d’acqua marcia e una luce artificiale da stupro che ricorda una canzone dei Cure con un ossessivo giro di basso. Sarà la suggestione di un racconto di Ondine (“Corri, cori che tanto ti prendiamo!”), ma preferisco passare per la galleria carrabile tirandomi la maglia fin sul naso per filtrare le polveri sottili che sottilmente mi sporcano il respiro.



24 SETTEMBRE, 21:16. Se nonostante la mia lentezza volutamente cadenzata, le luci dovessero ancora essere spente, andrò in camera mia, avvierò il computer e ascolterò a tutto volume le prime tracce di Nevermid [Deluxe Edition]. Poi selezionerò un altro programma per mixarci sopra i timpani possenti della Sinfonietta di Janacek. Esperimento interessante: cosa succede quando accanto alla luna ne sorge un’altra verde, malata e deforme?
 Osservo il cielo che minaccia pioggia. Se nonostante tutto, la porta dovesse essere ancora chiusa a doppia mandata, inserirò il disco nel lettore cd e lo lascerò scorrere fino alle bonus track.

If I die before I wake / Hope I don’t come back a slave” o forse era “Better to reign in Hell / than serve in Heaven”? Non importa. Procedo per caotiche associazioni d’idee. In un mondo in cui Nessuno accendeva le lampade, anche i più piccoli frammenti di cuore prendono vita.

http://www.youtube.com/watch?v=PjiCXtklPSA
http://www.youtube.com/watch?v=NCXRqgXiARA
http://www.youtube.com/watch?v=w7U_c1_EmV8

domenica 23 settembre 2012

L'AMORE È UNA FESTA A SORPRESA


«Le feste a sorpresa sono la cosa peggiore: sembrano fatte apposta per farti sentire a disagio. Gli amici non parlano di preparativi per il tuo compleanno e così pensi che se ne siano dimenticati e, se cerchi di organizzare qualcosa all’improvviso tutti hanno da fare. Poi vedi che bisbigliano tra di loro ma, quando arrivi tu, smettono all’istante. E per cosa? Per potersi riunire in una stanza buia da qualche parte con l’unico scopo di spaventare la festeggiata, ormai del tutto depressa e in paranoia mettendosi a urlare “Sorpresa!”. È assurdo» disse Addison Montgomery «L’amore non fa quell’effetto» disse la superstar della chirurgia neonatale con un corpo da modella.

E mangia cheeseburger per superare il “trauma” di essere stata lasciata. E ride ¬«Il mio solo obiettivo era diventare grassa»

Non posso fare a meno di sentirmi vagamente presa in giro. Non so perché ripenso a quell’episodio di Private Practice mentre il cantante si siede sul bordo del palco rappando su melodie metal in chiave armonica armena. Un ragazzo gli si avvicina e lo prende per i capelli spingendogli la testa contro il pacco solo per lasciarlo andare all’ultimo momento.

Riflettendoci, forse “l’amore” somiglia di più a questo. Ricordo che una volta, quando mio fratello era piccolo, mi ha dato un pugno (probabilmente solo per vedere che effetto faceva). Con la freddezza scientifica di un entomologo sadico io non l’ho sgridato, anzi ho cristianamente porto l’altra guancia e ho visto una rabbia rossa infiammare gli occhi trasfigurati in una miniatura di un demone che sferrava una grandine di colpi impotenti.

La tenerezza dell’infanzia è solo un’ipotesi azzardata. Quando aspetti un figlio, la tua fantasia è tutta fiocchi azzurri e prime parole. Nessuno pensa mai alle mille contrarietà quotidiane, ai pannolini da pulire, ai bavaglini macchiati, alle delusioni della crescita. Le stagioni hanno sempre una patina poetica, come se il futuro dovesse per forza essere migliore dei cento passati che hai già vissuto.

Se penso alle mie amiche che pian piano stanno costruendo il loro nucleo di famiglia, devo per forza riflettere sul mistero del mio orologio biologico inceppato. Non sento il bisogno di un Altro da me, e sarebbe arrogante aggrapparsi a uno stato di dipendenza affettiva Non potrei e non vorrei essere il deus ex machina di qualcuno, io che non sono mai stata in grado di allevare nemmeno un tamagochi. Nei telefilm americani e nei discorsi dei conservatori del nostro parlamento la maternità sembra soprattutto una questione di carne e vasi sanguigni comunicanti. Per un po’ di tempo ho giocato con l’idea dell’adozione ma poi sono tornata ad essere realista: io, una single disoccupata e mentalmente poco stabile … non sarei certo il prototipo di genitore ideale anche se, ragionando così chi lo sarebbe? Se le esasperazioni televisive sono lo specchio iperbolico della società, si direbbe che gli uomini siano spinti esclusivamente dalle loro pulsioni primordiali mentre le donne chiedono solo la protezione virile e un letto per non pensare. Se il quadro dev’essere questo, preferisco tornare alle speculazioni sui nomi da consigliare alle mie simpatiche conoscenti in attesa. Yuri è un bel nome femminile, aggraziato come un giglio, ma mi rendo conto della confusione di genere e delle allusioni al sottobosco della cultura omosessuale che potrebbe comportare. Meglio allora la purezza di qualcosa tipo Sumi. Se nascessero due gemelle si potrebbe fare la coppia Sumi e Fumi (scritto con il kanji di “due”: semplice, lineare), ma suonerebbe tautologico come Pixie e Dixie o Evy Emy ed Ely.



Che effetto fa avere una sorella gemella e vivere un’esistenza omozigotica di vestitini sempre uguali e gite negli stessi posti per compleanni con una sola torta e la metà delle candeline?

Ho sentito dire che i gemelli sono legati da un’affinità telepatica, come se fossero le due perfette metà combacianti della stessa emozione. Deve essere come stare in un costatante effetto specchio, come quando cerchi di evitare una persona che ti viene incontro e d’istinto quella scarta nella tua stessa direzione.

E allora, da brava creatrice di tragedie, provo a immaginare una storia. Una storia in cui la famiglia sale in macchina al completo dopo un viaggio a Disneyland – cappelli con le orecchie di Topolino, popcorn e caramelle. L’autostrada scorre liscia. Il sole sta calando dietro alle colline, fermandosi appena sulla carrozzeria cromata di un camion a otto ruote che all’improvviso impazzisce come un serpente, invadendo la corsia opposta.

Le lamiere lasciano squarci caldi nella carne, i vetri riempiono la fronte di mille piccoli diamanti: Fumi ha un diadema di disperazione ben diverso dai gioielli di una principessa addormentata nel bosco, ma le sembra comunque di avere qualcosa incastrato il gola, qualcosa di rosso e duro che blocca le sue urla. In realtà non sente dolore. Si volta sull’asfalto per cercare con gli occhi mamma e papà. Sono vicini ma troppo silenziosi. Forse dormono.

E poi vede Sumi incastrata in una scatola di metallo compresso. Schiacciata. Come ci si sente a ritrovarsi di colpo sbalzati in un mondo incompleto, con un nome che ti ricorderà per sempre quel vuoto che non si potrà mai colmare?

mercoledì 19 settembre 2012

UMEBOSHI

«Cosa ne diresti se provassi a fare le umeboshi?» mi ha chiesto Cassy ieri sera «Le prugne in salamoia» ha aggiunto, come se la mia espressione perplessa fosse stata una richiesta di spiegazioni. In realtà io avevo capito perfettamente di cosa stava parlando, ma adoravo le vere umeboshi e sapevo che quella versione fatta in casa, per rispettare tutti i crismi delle mie gabbie numeriche, sarebbe stata solo una pallida imitazione deprimente. Meglio evitare.


Una volta, accompagnando Eloisa tra gli scaffali di una boutique di alimenti biologici, ho trovato un vasetto di frutti pallidi e gonfi di sale. L’ho rigirato tra le mani come se fosse la più preziosa delle tazze da tè del servizio imperiale, ma non c’erano numeri a rassicurare le mie ansie sugli apporti energetici e quei pezzi di frutta se ne stavano lì, a fissarmi, morti come anomali teratomi in formaldeide. Ho posati di nuovo il barattolo.

La mia immaginazione è decisamente troppo malata!



Adesso, lungo la strada mi fermo. C’è una specie di festa di piazza con banchetti di propaganda comunista vetusto-cubana e una band che suona su un palco improvvisato sotto gli alberi, sulla pista ciclabile. Non sono un granché ma ho bisogno della potenza di decibel che ti entra nelle ossa e ti fa tremare dall’interno. Mi sembra quasi di capire il vicino, con quel suo fastidioso rumoreggiare disco: a volte hai bisogno di decibel che purifichino la mente spazzando via i pensieri, come un mantra buddista per scacciare il male. Non conta che si tratti dei bassi di un pezzo ripetitivo o delle grida di una cover band metal / crossover.

Il mio primo impulso è quello di gettarmi nella mischia mentre il cantante sta provando a trasmettere la rabbia rivoluzionaria di Killing in the name of ma questa versione proprio non funziona: quel ragazzino delle medie ha poca forza nella voce, nonostante l’entusiasmo dei sostenitori. Sono tutti energumeni che si dedicano all’head banging tra una spallata e l’altra e per me non sarebbe consigliabile buttarmi là in mezzo, tanto più che ho la gonna.

Mi appoggio allo schienale di una panchina – eleganza in ferro battuto e legno finto-liberty – e muovo anch’io la testa avanti e indietro guardando la gente e provando a fare ipotesi sulle strutture relazionali dei gruppi che si sono formati nel frastuono del momento (Non riesco mai a spegnere del tutto il cervello e riflessioni del genere affiorano continuamente senza che me ne renda conto).

Ai margini del pogo, tre delle bambole del Club dei Sette Peccati Capitali osservano distaccate.

Revy /Rage fuma una Gauloise macchiata di rossetto. I leggins neri corti al ginocchio lasciano intravedere un drago circondato da una tempesta di fiori di ciliegio e i complicati disegni sulle sue unghie americane si muovono nell’aria come una Divinità Elettrica.

E poi Emilie/ Vice con mezzo cranio rasato e una cascata di deadlocks di lana rosso /fucsia che spuntano da sotto il cappello a cilindro – grossi occhiali da aviosaldatore incollati sulla tesa e occhi cerchiati di cajal color fumo, come se ogni sguardo venisse da una nebbia lontana.

E per ultima, quasi in disparte, Ruby /Jealous stretta in una camicia a quadri, pallida, enormi occhi abissali e labbra di fragola matura: è una Capuccetto Mannaro ignara del suo passato. È quello che avrei voluto essere, almeno in parte.

Anni fa, al mio negozio preferito di Harajuku avevo comprato una scamiciata rosa con bottoncini dorati e un delicato ricamo sulla pettorina. Indossandolo davanti allo specchio, con due commesse infiocchettate a farmi da vallette – mi ero sentita come una principessina, avevo fatto un lieve inchino curvando un po’ le gambe all’infuori e non avevo potuto fare a meno di pensare che, se mi avesse vista così, Altair sarebbe stato fiero di me. Razionalmente sapevo che se n’era andato e non ero così sciocca da credere davvero al Meraviglioso Paese Oltre le Nuvole dove si mangiano le pesche dell’Immortalità.

Non poteva esistere un posto in cui non si faceva altro che contemplare la luce riflessa di un dio annoiato, come la neve di uno schermo gigante. Non poteva esistere e quindi nessuno poteva vedermi né sentirmi, ma mi capitava spesso allora (e mi capita ancora) di tornare con la mente alle persone che ho perso per cercare di riallacciare rapporti irrimediabilmente lacerati, e finisco addirittura per scegliere dei libri da regalare a Natale, solo per accumularli sulla mensola della libreria, leggerli e sentirmi sdoppiata, estranea a me stessa.

Ora, dall’altro lato di uno spiazzo che odora di salciccia alla brace, guardo le karakuri-dôji e l’estetica dei loro corpi meccanici. Altair non avrebbe approvato, come non avrebbe approvato la mia idea di un nuovo tatuaggio. Forse in attesa di conoscere il destino da riservare al mio braccio sinistro, avrei potuto farmi incidere una piccola stella onmyôji sulla spalla destra, con una farfalla Ulysses al centro e cinque segni in sanscrito sulle punte.

http://www.youtube.com/watch?v=U7IUA8W8xuM

http://www.youtube.com/watch?v=rR4mTqq80I8

domenica 16 settembre 2012

MI PIACEREBBE CHE CIH LEGGE LASCIASSE UN COMMENTO ... (cercando su fb?)

TEEN-SHIRT

La gente mi viene incontro in gruppi disordinati: è la confusione del centro il sabato pomeriggio. Delle ragazzine bionde si avvicinano in un coro cacofonico di risate squillanti e colori mal abbinati che seguono la malsana moda delle “mutande di jeans”. Alcune mettono in mostra, con disinvoltura quasi pornografica, quarti di carne debordanti da striscette di stoffa e top di Toki-Doki ultra deformati da seni quinta misura; altre mi fissano e sghignazzano (“Che figa!”, rivolte ironicamente al mio abitino di pizzo nero).


È facile ridere quando hai curve da pin up anoressica e stringi la mano di un tipo che sembra Seeley Booth in bermuda, neanche fossimo a Miami. Assomigliano a tante Skipper, sorelline adolescenti di Barbie – per sempre intrappolate in una pubertà provocante da lolite.

Da bambina non mi piaceva giocare con le mie compagne. Mi annoiavano le loro zuccherose storie di matrimoni, casalinghe e mariti innamorati che portavano a casa mazzi di fiori freschi ogni sera. Io avevo un solo Ken, circondato da un harem di belle sventole, e una Skipper (l’avevo chiamata Jennifer), pronta a rispondere ai desideri più perversi di quell’unico uomo di plastica.

Ho scritto che “ho riservato a K tutto l’amore che può esistere in questo triste mondo”, ma non è ontologicamente corretto e io "amo troppo i fatti per permettermi di distorcerli".

Mentre ascoltavo le mie coetanee scambiarsi le loro esperienze, con dovizia di particolari ingenuamente sgradevoli, mi domandavo perché a me non capitasse mai nulla di anche lontanamente erotico o sentimentale. Avevo sognato le nozze in bianco, la torta alla panna con gli sposini di zucchero e il bouquet da lanciare voltandomi all’indietro. Chi l’avrebbe preso? Immaginavo un capannello di amiche al mio fianco, pronte a gettare confetti rosa, riso e petali. Poco importa chi fosse il mio lui in quelle fantasie.

Poi il tempo è passato e le possibilità si sono allontanate come pagine sbiadite di un brutto racconto e di quell’innocenza mi è rimasto solo il piacere di cercare un nome per i figli delle mie conoscenti, che nascevano come la punteggiatura nel flusso regolare dei giorni. Appena mi giungeva la notizia mi mettevo a riflettere e provavo a immaginare il sorriso di una nuova persona. Facevo i miei calcoli e stabilivo quando sarebbe nato il bimbo, m’informavo sul colore del fiocco e poi cercavo nel magazzino della mia memoria un nome che suonasse adeguato, come la nota di un campanellino individuale. Per le femmine non c’erano problemi: Alice era sempre la mia prima scelta; e poi c’era il fascino dei nomi giapponesi legati alle stagioni: Fuyumi (冬実) se fosse arrivata in inverno, Natsumi (夏美) per l’estate, Harumi (春美) per la primavera, forse Akimi (秋未) per l’autunno (ma le possibilità erano pressoché infinite). Per i maschietti era un po’ più difficile ma sfidavo la mia mente a trovare la parola giusta. Il fatto è che quasi mai le mie amiche mi davano retta ed io ero costretta a guardare in faccia una realtà distorta, in cui avevo sostituito la vita pratica con quel gioco intellettuale.

Solo una volta mi è passato accanto un barlume di proposta, ma era ormai troppo tardi: quando è successo avevo già smontato me stessa e idealizzato Iris oltre qualsiasi limite umano, tanto che mi aveva scioccato scoprire che anche lei dormiva e mangiava come chiunque altro. Guardandola risvegliarsi con la bocca semi-aperta, avvolta in un pigiama di flanella, ero scoppiata a piangere senza riuscire a fermarmi e la poverina si era scossa da quel primo torpore che appesantisce le palpebre e mi aveva indirizzato uno sguardo pieno di apprensione interrogativa.

Allora, avevo sentito un peso sul cuore, poi un vuoto, poi il piacere maligno di vedere quella strana tristezza su un viso che avevo considerato perfetto e che invece si era rivelato pieno di pecche, nella luce implacabile del mattino (Mi piacerebbe sai /
sentirti piangere / Anche una lacrima / per pochi attimi).

C’era stato un altro sbalzo nelle mie emozioni, un sottile passaggio dalla malinconia alla crudeltà.

http://www.youtube.com/watch?v=HDmB-90q4ok

lunedì 10 settembre 2012

雪- yuki – neve


RILEGGERE UN MIO RACCONTO DOPO + DI QUATTRO ANNI, FA UNO STRANO EFFETTO

So che l’hai incontrata. Nel disperato biancore accecante di alberi morti lei si è materializzata


– fiato dalla bocca di un gargoil.

Dreadlocks scintillanti di plastica e bulloni cromati Perfetta e altera sulle sue chilometriche zeppe laccate, Yuki Onna cyber punk , divinità atomica, tatuaggi alchemici sulle mani che ti puntano contro un revolver d’argento.

Il tamburo gira in un morbido accordo.

Poi sei caduto in uno squarcio nella rete del tempo e hai bussato, freddo di neve nel nero vinilico incollato alla pelle. Bambolina troppo sexy in quella vorticosa tempesta che non concede tregue. Il fumo di una Gitane che si confonde nell’aria. Ti offrirò un caldo conforto d’acqua. Ho sempre desiderato un boiler elettrico – pressione a temperatura costante – e un riscaldamento centralizzato – tubi roventi che corrono sotto il pavimento (quasi impossibile camminare scalzi). Ora so che li volevo solo per poter sentire lo scrosciare di aghi bollenti sui tuoi polsi sottili, solo perché mettessi t-shirt e pantaloncini sul tuo profumo di vaniglia. Maglietta corta che ti scopre l’ombelico. È stato l’unico regalo di Amber, ma non l’ho mai indossata perché mi avevano detto che non ci si può mai fidare di una ragazza vestita di rosso e così è finita silenziosamente in fondo al cassetto, tra i sacchetti aromatici pieni del suo odore di bosco e di sorgente. Lei era una magia nel vortice allegro e incantato di un circolo circasso. Lunghi capelli biondi in una corona di agrifoglio e candele.

Ho cercato un nome per la regina delle fate. Iridi incredibilmente scarlatte. Non ci separeremo mai . Roteavo stordita.

And with this ring I wed thee.

Sottomessa adorazione nella brezza amara del suo ventaglio da guerra, contraddittoria e distante. Sussurravamo in penombre immaginate, lontane dal mondo che ci aveva scacciato, fluttuando in onirici incubi senza più memoria. Aggrappata disperatamente alle sue dita eteree, camminavo in un giardino eternamente autunnale, vite violacea ci incorniciava. Lei accarezzava indifferente la lucentezza metallica di una ninfa dallo sguardo perso nel vuoto, mare quieto su cui un tempo sbocciavano milioni di fiori gialli. Principessa triste dal corpo bambino, seni protesi verso l’abbandono. Qualcuno è convinto che aspettasse un futuro ucciso dal drago.

Già, perché i principi vincono comunque? Dovremmo inventare una favola rovesciata. Con parole scritte allo specchio. Ci smarrivamo in labirinti ciechi, ridendo della nostra innocenza. Ma un giorno è scomparsa nel nulla, avvolta dal grigiore di una nuova incerta alba di perla. Dolcemente, scuotendo il pergolato col suo respiro gentile, con il suo tocco deciso. Si è dissolta in un turbine di foglie trascinate da un vento improvviso e io sono rimasta immobile a fissare il punto in cui lei non c’era. L’avevo attesa per mille tramonti, ma poi avevo seguito il sentiero lastricato d’oro verso casa.

E ora il copione si ripete con la sua esattezza ossessiva.

Entri in camera, un bastoncino di incenso acceso in bilico sul labbro increspato. Misfits random nello stereo e Wyatt Cole, teneramente grunge, che scommette con la vita colando saturo da un primo piano sullo schermo al plasma. Ti muovi senza vedermi al centro di quella cacofonia armonica di disillusione frastornante. Sarò abbastanza pura per amarti? Strapperò centomila petali per circondarti della mia ridicola azzurrità sentimentale e forse un giorno o l’altro ti accorgerai delle mie mute orbite intorno a te. Un lampo di luce che potrei riconoscere ovunque. Amber. In mezzo alla stanza. Non ha i rasta, ma ha una pistola. Sparo iridescente che ti esplode nel ventre, ovattato e chiaro come una sentenza. Non ti sporcheresti con la volgarità di una preghiera a mezza voce. Canti melodie d’oblio e reminescenza mentre lei svanisce ancora lanciandomi un bacio leggero, farfalla di morte in questo assurdo finale colombiano.

(Don’t cry to me, oh baby. Dead end irl for a dead end boy)



DI SEGUITO UN PO' DI ATMOSFERA!

http://www.youtube.com/watch?v=WBPfC9FzDL4

http://www.youtube.com/watch?v=vgYXuVNsxLE


giovedì 6 settembre 2012

ECO-FUEL M'innamoravo di tutto

Metto la sabbia sporca del gatto sopra a una pagina di giornale che parla dell’energia solare. Alcuni dicono che anche queste fonti d’energia rinnovabile in realtà danneggiano il pianeta. Tutto è collegato. Per risparmiare un microgrammo di emissioni, un orango muore di fame nel Borneo.


Con i se non si scrive la storia. “La mia vita sarebbe stata diversa se …”: che cosa stupida da dire quando ormai il percorso è già tracciato. Non puoi fare altro che adattarti! È questo ciò che conta: la Legge dell’Adattamento. Combattere con le armi che si hanno a disposizione senza voler per forza acquistare un’armatura quando si hanno sì e no le ghinee sufficienti per una cotta di maglia. No ci si può crogiolare troppo nel luccicante infinito degli universi paralleli, perché comunque la fiction c’insegna che pur partendo da presupposti diversi il risultato sarà sempre uguale. Chiamatelo destino, se volete.

Con quest’idea ho cominciato a camminare per la città. Da aprile a novembre, finché l’inverno non spazza via persino gli ultimi residui di sole (Da marzo a febbraio mio nonno vegliava

sulla corrente di cavalli e di buoi. / Sui fatti miei sui fatti tuoi. / E al loro dio perdente non credere mai).

Misuro le strade, guardo i palazzi, leggo le insegne e i cartelli con i nomi delle vie … Scopro piccole porzioni del mondo.

Un manifesto pubblicitario campeggia sul muro. Mi chiedo che senso abbia un’Oktober Fest alla fine di settembre. Fa’ lo stesso effetto incongruente di un rinoceronte di peluche che se ne sta con l’aria triste nella vetrina di una tabaccheria. È morbido, batuffoloso e depresso come Ih-Oh (“Sorridi più spesso!”), contradditorio come il bisonte insaponato sui binari del metrò nella canzone di Baccini: una presenza metafisica che ti riporta alla realtà. Hai voglia di comprarlo solo per dargli un nomignolo stupido tipo “rinhocito”, talmente umiliante da cancellare anche il più pallido ricordo delle savane. Oppure no, ci vorrebbe qualcosa di nobile e pensoso … (che so, Rousseau ad esempio, che varrebbe tanto per il filosofo quanto per il pittore).

http://www.youtube.com/watch?v=d7at7p--lKI

lunedì 3 settembre 2012

GREEN PARROTS: MEEME’S LOST SOUL

Per me, la voce narrante sono io: la Regina Raflesia con la sua ambiguità morale. Anzi no, sono Meeme con le parole telepatiche disperse dalle vibrazioni di un’arpa cetico-spaziale.


Quel che è certo è che l’estate è quasi finita e a queste latitudini comincia a soffiare un vento fresco – a volte quasi freddo, direi – che ti costringe a cercare una maglia a maniche lunghe da indossare sopra la t-shirt.

Da qualche giorno non riesco a dormire. E questo non aiuta, dato che la settimana scorsa ho ripreso a lavorare stabilmente – o almeno con la tipica stabilità precaria di chi non ha uno stipendio, ma può tenere dei bei biglietti da visita nel portafoglio. Vago da un punto all’altro, letteralmente. Letterariamente. E mi domando se ci sarà mai una soluzione alla fine del percorso. Camminando sotto la pioggia, sento che troverò il mio kôda, l’essere spirituale dell’arcobaleno, meno vivace di Oxumaré, magari più filosofico, meno brasiliano, e più triste. Pesante.

Non riposo.

Esco senza ombrello.

Gli acquazzoni carichi d’urgenza si alternano a ore di vento. Ripenso a quel racconto di Palanhiuk in cui la burrasca portava via con sé tutta la spazzatura possibile, sfracellandola senza imbarazzi sulle reti di filo spinato dei paesi: eccola lì, la tua vita esposta al pubblico giudizio come i rifiuti rivoltati da un gatto randagio. (Se fai fatica a guardare, vuol dire che in fondo sai che quel gatto sei tu; che non avrai un posto dove andare quando arriverà la brutta stagione; che non avrai altro Dio all’infuori della Necessità).

Conto le gocce che rigano i vetri. Vorrei comprare dei fiori freschi e accendere candele per ricordare tutti quelli che non ci sono più. Per ricordare ciò che ho perso lungo la strada.

La mia esistenza sarebbe stata ben diversa se avessi avuto un altro corpo, o un’altra anima da reincarnare ma è inutile pensarci ora, con tanti anni e troppi fallimenti accumulati sulle spalle: la MOC confermerà che sto per sbriciolarmi come un biscotto.

Sono di nuovo in cucina a guardare un paesaggio pseudo-campestre che sa di terra umida. Le foglie hanno assunto un verde brillante e fresco che richiama le atmosfere eleganti di un film thai / vietnamita. Tanto più che dagli alberi arrivano i versi sgraziati dei pappagalli abbandonati: chissà com’è avere una libertà che non avevi richiesto. Forse loro possono volare, o forse le forbici di un negoziante hanno potato loro le ali, condannandoli alla staticità decorativa di una gabbia da salotto, prima di sapere che un bambino egoista li avrebbe gettati oltre il davanzale, nel freddo del mondo.

Cosa mangiano i pappagalli in natura, senza il mix di miglio della Friskes da versare nella scodella vicino alla ciotolina per l’acqua? …

Credo che alcuni si nutrano di sogni … Rubano i pensieri che volano nell’aria e così si colorano le piume … Altri rimangono nella polvere in attesa della vendetta e poi esplodono, portandosi via l’innocenza delle vittime, divorando sorrisi e arti lacerati.