giovedì 10 giugno 2010

Jónsi Go (Parlophone)




I Sigur Rós sono stati uno dei primi gruppi a sfatare il mito che occorre cantare in inglese per avere successo a livello internazionale: con i loro testi in islandese ci hanno raccontato la moderna magia del quotidiano nella Terra dei Ghiacci. Ora il cantante Jónsi continua questo percorso intimo e fiabesco costruendo melodie raffinatissime nel suo debutto da solista, Go, insieme a dei compagni di viaggio di tutto rispetto. Il pianista statunitense Nico Muhly, già noto nel panorama del post-rock nordico per la sua collaborazione con Björk, ci accompagna in un mondo di buio rarefatto (la sesta traccia s’intitola Kulniđur, “Oscurità”) . Le parole assumo un valore poetico e sonoro particolare, in armonica discordanza con il messaggio emotivo della musica e descrivono una quieta rivoluzione interiore (Tornado). L’Experience Edition comprende anche un DVD con 4 canzoni live, registrate al Working Men’s Club di Londra, e il video ufficiale di Go do in cui si riassumono tutte le sfumature del gioco: il movimento, l’azione e la performance disperatamente istrionica. Il carismatico Jónsi è truccato come un uccello tra gli uccelli e le percussioni del finlandese Samuli Kosminen scandiscono la ricerca emozionante di uno sbocco per sentirsi completamente vivi, all’inizio di un numero di equilibrismo in sospensione tra le nuvole in una “endless summer”.

Scarlet Nabi

martedì 1 giugno 2010

TABLEU GATE 1



(GP Manga)
Rika Suzuki



Disegni: 7 ½
Storia: 6


Satsuki è orfano ed è appena arrivato in Giappone dall’Inghilterra. Nella grande villa in cui vive solo ed abbandonato trova un libro, il Tablet, che contiene dei magici tarocchi, dei tableux vivants nel vero senso della parola! Quando il sigillo si spezza, alcune delle figure fuggono dalla propria illustrazione, diventando fuori controllo. Nemmeno la custode, Lady, che dovrebbe conoscere tutti i nomi delle carte, è in grado di padroneggiare la situazione perché ogni personaggio ha una volontà indipendente.
La storia a volte prende i toni del romanzo ottocentesco e la trama spesso ricorda Card Captor Sakura, ma pare procedere secondo uno schema rigorosamente filologico, con un’accuratissima rielaborazione personale degli Arcani Maggiori. Questo manga sarà di sicuro interessante per chi ama il disegno gotico, particolareggiato e carico di chiaroscuri e le atmosfere vittoriane con una spruzzata di kawaii alla Rozen Maiden.

martedì 25 maggio 2010

The Dead Weather - Die By The Drop (OFFICIAL VIDEO)






The Dead Weather Sea of cowards (Third Man Records)

Periodo ricco per gli amanti del buon alternative blues! Prima i Black Keys e Holly Golightly, ora una nuova perla firmata Dead Weather. Ad un anno dall’esordio, torna il supergruppo formato da Alison Mosshart ( The Kills), Jack White (White Stripes), Jack Lawrence (Raconteurs) e Dean Fertita (QOTSA). Alcuni critici hanno scritto che Sea of cowards è un disco “fisico”. Sono d’accordo. La voce sensuale di Alison tesse ricami fumosi e dark sopra e dentro una musica cupa ed ossessiva. Le note sono il contrappunto ideale alle parole (I’m mad), diventando un romanzo intenso ed autonomo, che non ha nulla da invidiare ai più grandi (Gasoline). In un labirinto che si sposta continuamente da una dimensione all’altra, la tecnologia vintage dei synth gioca con standard rock che richiamano gli Zeppelin. Mettendo il cd nel lettore ti aspetti quasi di veder uscire una proiezione olografica: una Principessa Layla con gli stivaloni alla Bufalo Bill e una sigaretta spenta tra le labbra.
Tutto si basa sulla contrapposizione: “ Il fuoco torna indietro dentro il fiammifero” e la filastrocca gotica che ripete “Till the moment of your last breath” copre la voce argentea di un bambino, e sulla copertina una chitarra di foggia antica è rovesciata e si incendia per combustione chimica. Tutti i personaggi dell’artwork sono un interessante enigma noir. C’è una donna con il viso coperto dalla maschera del Dottore della Peste che indica una scena che sintetizza l’immagine di un mondo caotico che rischia d’infettarci. Un mondo in cui un essere con lunghe corna legnose ed arcuate come il dio Pluto conduce verso inferi alienanti un monaco dalla testa grottesca predica con la bocca arricciata e la mano alzata. Non sembra esserci salvezza né uscita: si può solo essere corsari in un “mare di vigliacchi”

mercoledì 19 maggio 2010

SANGUINETI AS A JINN

Ma se ghe pensu... Più k agli interventi nei festival, più che alle ballate di parole sghembe e sdruciole, il mio pensiero x E. Sanguineti va al giorno in cui l'ho incontrato alla Feltrinelli. Un cliente rispettatissimo, ma pur sempre un cliente in mezzo agli altri ("Buonasera Professore, che cosa le serve oggi?"). In quel periodo mi interessavo agli haiku e cercavo propirio un suo lavoro, pubblicato solo in Francia. Se avessi avuto il coraggio di fermarlo e di chiedere magari sarebbe nata una bella conversazione, Spaziando da Bashô a Borges. Avrei potuto, credo. Era un gigante del pensiero, ma non incuteva timore. Era come un folletto buono: il guizzo della libertà di spirito negli occhi d'acqua mobili.

giovedì 29 aprile 2010

VIRGIN MARIGOLD ON TOUR

Pasqua + 23 aprile 2010



Nel mondo ideale, apro le finestre, lasciando entrare le nuvole. Nel mondo ideale la cucina profuma di pulito tè-verde / pompelmo e crostate ai lamponi, per Pasqua. Potrei tollerare piccoli susuwatari neri di umile buio, ma passo lo straccio e mi siedo sul pavimento. Avevo comprato un abito da comunione in un negozio cinese dei vicoli: un sogno di pizzi sovrapposti ad un decimo del prezzo normale.
Incredibile come si possano svendere anche i desideri che non ci appartengono. Incredibile quanto si diventi stupidi, a volte...
Ho fatto tutta la strada di corsa, sui tacchi dei miei stivaletti da Alice in Wonderland. Volevo arrivare per prima e mostrarti orgogliosa che avevo rispettato le condizioni della sfida.
Chicchi di riso bianchi incastrati tra i sassolini rotondi e regolari del selciato. Domenica su sagrato della chiesa c'erano tre marocchine che intrecciavano foglie di palma chiare, pronte per la benedizione. La messa doveva essere finita, anche se la quiete sinistra degli ulivi lasciava presumere che non fosse mai iniziata. Sono entrata senza fare rumore, per non disturbare il sonno di legno dei santi. La croce, il turibolo arrugginito, una reliquia della piccola Undecimilla:un ditino, o un pezzo d'abito strappato da un mostro marino – la gente crede a qualsiasi cosa, basta inventare una buona storia e offrire un muro a cui appendere la propria fragilità. In fila. Decine di ex voto scintillano d'argento. Ne prendo uno – fiamme azzurre intorno ad un cuore impolverato. Due angeli bruciano e ridono. Sarà il tuo nuovo vintage pendant da sfoggiare in occasioni di gala oda attaccare alla parete, circondato da candele alla fragola, accanto alle foto ingrandite di una calendula dal centro giallo. Sei scatti, in gradazione diversa, bilanciando i colori.
Ti ho incontrata per la prima volta 16 lune fa, ora più ora meno. Nessuno avrebbe creduto davvero che intendessi solo parlarmi della Famiglia, per quello sarebbe bastato infilare un opuscolo sotto la porta. Occhi enormi, cerchiati di kajal profondo e deformati dalla convessità dello sponcino. Ho aperto senza riflettere. Entrando avevi visto le cornici bordate di materiale IKEA: ognuna in sintonia armoniosa con la sfumatura del fiore quietamente riprodotto. Il proiettile aveva creato un grande sole a raggiera sulla stampa numero tre – blu ciano / violìndaco. Attendevano l'esecuzione.
L’ora dell’appuntamento è passata da un secolo. Un cerchio rosso sul calendario, compendio del tempo futuro appeso alla parete da una mano invisibile, un messaggio nella segreteria del cellulare: E’ deciso. So cosa significa, so che non verrai, presa da splendidi progetti per una perfetta uscita di scena. So dove trovarti perché il luogo del raduno è il parcheggio di un Wal Mart abbandonato fuori città. Mi avevi raccontato che era stato costruito sulle rovine di un antico tempio, sostenevi che c’era una vena d’energia luminosa che scorreva tra gli scaffali e le bottiglie di Dottor Pepper – spiriti guardiani alle casse.
Scendo in strada sollevando i mille strati di tulle del mio abito, alzo il pollice sul bordo del marciapiede come in un film degli anni Sessanta e mi arrampico sul predellino di un camion che trasporta gamberoni surgelati. Attraverso il vetro nella cabina noto centinaia di scatole impilate nel freddo sotto zero e immagino nugoli di crostacei nuotare ignari in un fiume vietnamita, prima di finire in una rete. Sul Mekong, un pescatore suona un flauto di bambù: melodia d’ombre verdi e trasparenti.
Mi sistemo sul sedile. Il conducente è un Quijote alto e filiforme infilato in una camicia da red-neck e un prodigioso elmo sponsorizzato da una squadra di baseball. Se è vero che la cavalleria non esiste più, erosa dalle il-logiche del mercato, oggi potrei essere Pippa Bacca nella sua ultima foto: una sposa purissima portatrice di speranza o una sposa cadavere senza fede. Tutto dipende dal fato, baby. Come ti chiami? Ha un lieve accento spagnolo. Eccolo qui, il mio paladino errante. La periferia deserta scorre in scala di grigi: palazzine popolarmente multi-alveare, ecomostuosità da abbattere con la lancia in resta. Madlyn . Simile a Marilyn, ma con qualcosa di folle, perché tutte le persone migliori sono un po’ matte, e poi ha il suono d’argento di una’ipsilon liquida – un campanello nel Paese delle Fate. “Inventarsi una nuova identità ogni giorno”: è un esercizio che mi hai insegnato. A te lo aveva suggerito Layne – ma lui è davvero il leader? – con i suoi capelli rosa e gli occhiali scuri. Non capivo bene che senso avesse crearsi un passato e un nome, soltanto per scrivere un epitaffio migliore. I membri del gruppo avevano già comprato le tavolette di carbonella. Mancava solo la data.
Nel parcheggio le auto dormono in fila. Sono tutti chiusi dentro i loro fumi eterni. Amen .
Quasi piango, cercando iridi d’antracite scintillante nell’opaca uniformità delle portiere sigillate, ma ti vedo: l’orlo del vestito da nozze sporco di fango e polvere, il velo strappato, il revolver in pugno. Fai ciò che non ci si aspetterebbe in una situazione del genere: sorridi. Stanno morendo. Contemplo muta il tuo divertimento. Hai sparato a Layne. Te lo ha chiesto in ginocchio, ti ha offerto la bocca, aperta e circolare. Io sono un angelo. Non ho intenzione di ammazzarmi così. Mi domando quando ti spunteranno le ali e se mi solleverai verso l’alto prima di lasciarmi cadere – Inferno o Paradiso? –
Danziamo per un attimo infinito. Il fuoco nelle mie mani, ora
J’ t’aime
Moi non plus
Ho sempre voluto uno smeraldo ad espansione nello sterno scavato e cauterizzato. La gemma nel tuo petto è il bersaglio Wave the world goodbye.

sabato 17 aprile 2010

Temple of Deimos (Elevator Records)

Benvenuti su Deimos, uno dei satelliti di Marte! In questo disco le atmosfere sono granitiche, desertiche e stoner proprio come sotto il “Red Sun” dei migliori Kyuss. Federico Olia al basso e Andrea Parigi alla batteria sono sinonimo di suoni cupi e ritmo serrato, ma c’è di più. La voce di Fabio Speranza si stacca dai clichè del genere per arrivare a vette emotive impensate, dove riecheggiano i blues di Jim Morrison, ricchi di pause suggestive. Durante il lungo bridge di More heavy for a big tornado ti ritrovi ad aspettare di scoprire se la tua casa sarà trasportata nel Paese di Oz (un ironico incubo à la Josh Homme) o nella grotta di uno sciamano indiano. Piccoli cammei strumetali, sospesi come nuvole, alleggeriscono il muro sonoro: boccate d’aria leggera che fanno pensare alle filastrocche mistiche di Eddie Vedder in Vitalogy. E poi l’ultima traccia, Gulp me down, ti spedisce di nuovo in un abisso, con l’introduzione di David Lenci che per un attimo fa sospettare una collaborazione con Mark Lanegan. Resta ancora qualche piccola incertezza, ma la sonda spaziale della band genovese è partita e promette tante scoperte esaltanti.

giovedì 15 aprile 2010

cerbiji e forbici

05 aprile 2010

Sono sola. Oggi lui non c'è. Datemi dei fiori o una piantina per rendere migliore questo giorno di troppa luce. Ma qui non è rimasto niente. Mi aggiro nel fango dell'ultima pioggia,con un paio di Superga scucite e le forbici in pugno: corolle gialle spuntano tra le erbacce. Qui le chiamano cerbiji: margherite spinose, buone per le galline. O nel minestrone. Adesso la baragna vicino al pero è nuda,un reticolo di fili arrugginiti: non ci sono le rose di Santa Rita. In realtà non mi erano mai piaciute, con il loro sbocciare eccessivo e procace, ma mi si ripeteva sempre che erano le preferite della nonna e ricordo che le coglievamo in mazzolini ordinati, da mettere davanti alle foto ingiallite dell'altare di famiglia. Già, e allora perché non lasciare anche un bicchiere di vermentino, o una sigaretta accesa. Una Wiston light o una MS deluxe, dato che nella mia mente le cose si confondono. Che tristezza. Pare che nel mondo sia una mattina di festa! Qualcuno mi ha detto che aspettano un angelo bianco e senza spada, che apparirà splendente nella piazza sonnacchiosa, davanti al Dopo Lavoro, ma io non ci credo, non posso crederci. Un vecchio attraversa la strada, troppo ubriaco per una profezia.
Brucianti scardassature Bic Lady mi restituiscono la calma, in rosse macchie di Rorscarch Avvolgo un pezzo di carta intorno al polso e fermo il tutto con l'elastico degli asparagi: PRODUCE OF PERU. Da una settimana lo sto usando come braccialetto. La prossima volta che andrò dal fruttivendolo, ne prenderò uno anche per María Luisa. O forse sarebbe meglio di no? Se io fossi nata a Lima come lei, lo porterei con orgoglio, tanto per distinguermi dalla folla, ma... magari invece lei potrebbe offendersi... Non so, proverò a regalarglielo con un sorriso, quando la vedrò all'università, in fondo è solo un pezzo di gomma viola.
La fasciatura protegge i vestiti e evita che il detersivo irriti le ferite mentre lavo i piatti di ieri sera. Ho i guanti, ma sono enormi e l'acqua mi scola lungo le dita. Devo fare una doccia prima di uscire, per togliermi di dosso l'odore di sapone scadente. Al supermercato, non ho trovato quello che uso di solito – piacevole profumo di frutti di bosco. Cosa posso farci se sono abitudinaria? E in questa casa lo sporco sembra riprodursi con una specie di partenogenesi demoniaca. Ci sarà almeno una spugnetta per pulire il forno? Non ho nessuna voglia di avere un colloquio con S. Giuda! Aggredisco un'incrostazione marrone con una paglietta verde poco convincente. Credo che una vacanza sarebbe l'ideale ora, se servisse a farmi dimenticare per un momento chi sono. Il Portogallo dev'essere meraviglioso in primavera: il Douro, quiete colline verdi, i monasteri, lo stile manuelino – ancore e conchiglie elegantemente scolpite nel marmo dei palazzi. Non è necessario vivere, è necessario navigare. E forse non serve neanche una rotta precisa. Mi piacerebbe srotolare sul tavolo una mappa medievale e tracciare un itinerario fantastico pieno di curve, partenze e ritorni. Userei uno di quei pennarelli a punta tonda che hanno i chirurghi plastici nei telefilm americani, così il viaggio diventerebbe il mio nuovo corpo da cambiare,modificare. Anche questo presuppone dolore e rimango ferma. Ogni passo è una fitta, un sussulto caldo nella cavità dove doveva essere il cuore e poi a destra, riflesso, giusto sopra al seno, contro l'ascella...
Mi siedo al computer e scrivo parole proibite, con un imbarazzo da ragazzina vittoriana nelle dita. Le mie emozioni saranno purificate prima che si alzi e riempia la cucina di un'aria pesante di sonno e senescenza.
La capisco. O vorrei capirla?
Ogni ruga è una preoccupazione che precipita, il segno del tempo che non frena la sua corsa lenta. Quanti secoli mancano alla pensione, tra un'ispezione del capo e una scenata del collega nevrotico? Desiderio di silenzio che crea distanze siderali.
Il pranzo dalla sua migliore amica si preannuncia come una lunga giaculatoria monocorde di malattie, acciacchi e decessi, cercando di evitare gli sguardi curiosi alla mia bottiglietta di succo di mango tropicale, troppo terreno e materiale, i numeri stampati sull'etichetta. Zero possibilità di fuga.

lunedì 29 marzo 2010

SLAM DUNK deluxe

Takehiko Inoue



DISEGNI: 8
STORIA: 7



Sono una delle poche creature vergini, non contaminate da un adattamento italiano che dicono volgare e dialettale, anzi probabilmente sono una delle pochissime persone che non ha mai visto una sola puntata di Slam Dunk. Posso quindi giudicare serenamente, con gli occhi della novellina, questa ristampa in edizione deluxe con una nuova traduzione e preziose tavole a colori. Si riconosce la maestria di Inoue in un disegno ancora acerbo ma buono, già raffinato nel rendere soprattutto i tratti psicologici dei personaggi. Il carattere spaccone di Hanamichi Sakuragi con la sua enorme banana di capelli rossi mi ha fatto subito pensare alle gag comiche di Due come noi (Kyô kara ore wa), ma con una finezza umoristica che mancava a Nishimori. Lo spettoro delle personalità è completato nel modo più classico: Haruko, la ragazza dolce e timida incarnazione della virtù, e il fratello tirannico e inflessibile capitano della squadra di basket; e poi Rukawa, introverso e geniale. Niente di banale, però: ognuno promette di svelare un mondo nella cornice degli ideali di dedizione, perseveranza e amicizia tipico dei valori nipponici.

venerdì 26 marzo 2010

consigli


BAKUMAN


DISEGNO: 10
STORIA: 8

La coppia Obata /Ota non si smentisce e firma un’altra serie innovativa e interessante. Due ragazzi delle medie tentano di sfondare nel mondo dell’editoria diventando mangaka! Tutti i segreti di un disegnatore saranno svelati dall’interno, con frequenti richiami alle opere a fumetti più popolari (compresa qualche ironica citazione di Death Note: forse è la prima volta che ci si trova coinvolti da un simile “sguardo da vicino”?
Non manca il tocco romantico con l’amore platonico epistolare e grafico tra il protagonista Mashiro e la sua compagna di classe Azuki. Un rapporto che nasce sulla base di un sogno (quello di lavorare insieme per un anime) e che si svilupperà, pare, solo via mail. È una descrizione della società giapponese: un mondo contradditorio che impone continue restrizioni, regole e rigide convenzioni e in cui funziona ancora una logica che somiglia a quella delle tragedie kabuki; i giovani hanno spesso rinunciato agli ideali per appiattirsi su desideri morbosi di sesso dozzinale.
La vicenda di Saiko ricalca quella più sfortunata di suo zio, autore di un solo manga umoristico di successo, un gag hero manga. Nella strada per raggiungere la meta (un anime prodotto prima dei 18 anni) non ci sono supereroi, solo le tre caratteristiche base: superbia, sudore e fortuna.

Un difetto, se proprio ne vogliamo trovare uno: come avveniva già in DN, a volte le battute sono un po’ troppo lunghe e rendono poco scorrevole la lettura.
Comunque da non perdere!!!!!

venerdì 19 marzo 2010

RED AMARYLLIS

Diciannove marzo sul calendario. L’aria inizia appena a scaldarsi di sole. Scenderò al supermercato a comprare una Beck’s da stappare sul selciato del Porto Antico, da versare nell’acqua ferma di pesci rovesciati. Vorrei... Vorrei un sogno d’Arizona in cui esistano sogliole volanti con un solo punto di vista, o carpe con un occhio divorato dall’ombra, ma tutto qui si sdoppia e persino le lenti scure dei miei Raiban non servono a schermarmi; troppa luce, limpida di vento. “Un attimo, please: Che Dio crei le nuvole!”
Quasi ora di pranzo per i comuni mortali. Mi arrampico sullo schienale di una panchina e faccio roteare mentalmente una sfera di vetro piena di farfalle. Assurdo? Nel mondo astratto dell’architettura tutto è un gioco equo e sostenibile, puzzle spezzato e ricomposto da L. Nella realtà in cui il telefono squilla all’alba dentro a fili sgualciti di sogno non si può negare nulla. Aspettando la primavera, riempirò la casa di lylium rossi. Macchie ramate sul bianco minimale del mio appartamento vuoto.

Mi ero ritrovata là per caso. Attendevo che loro entrassero nell’ufficio e guardavo fuori. Il mare era diverso, grigio e annoiato, con la consistenza oleosa di un dipinto. La porta si era spalancata e il panorama era scomparso di colpo, totalmente oscurato dai fianchi di Serena. La sua enorme bocca a forma di cuore si muoveva senza faccia: Devi solo venire con noi fino a Manchester. Te la senti, carina? Non mi era chiaro il perché avessero chiamato proprio me, non sapevo nemmeno dove avessero trovato i miei dati...
E poi lui.
Era rimasto in disparte, rannicchiato in un angolo, spettinato e smarrito. Un pigiama azzurro troppo leggero, lo sguardo di paura bianca di chi ha lottato con i fantasmi.
E ha perso.
Certo che ci vengo! Le date del tour erano state decise all’ultimo momento, in gran segreto. Soltanto piccoli club.
(Chris era nella sala bar a bersi una birra).
Lei mi aveva presa per un braccio. Il suo rossetto mi aveva sussurrato: Un pazzo lo ha aggredito e ha ammazzato la madre. Lo vedevo, in fondo alla stanza. C’era chi diceva che fosse morto; forse si era solo rinchiuso per disegnare in pace, ma in fondo le due cose si equivalevano, no? Di sicuro non era più uscito da quel vicolo buio: sempre la stessa scena in loop, come in una bobina difettosa.
Tutto OK, bastava isolarlo dal resto dell’universo, preservare lo spesso strato di bambagia che lo avvolgeva in una rassicurante camera anecoica.
Ma non puoi calcolare al millimetro le mosse delle fan impazzite.
La divisa delle cameriere del hotel aveva un che di porno addosso a quella tizia alta un metro e ottantacinque, una quinta di reggiseno a balconcino che correva squittendo a braccia tese, con propositi peluche-sadomaso. Tette puntiagude da cui avrebbe potuto essere sparato un missile. Il mio compito era quello di proteggerlo, giuro. Anche se il cartellino BODY GUARD attaccato al taschino non mi si addiceva per niente.
Non ci avevo pensato due volte: avevo afferrato lunghi capelli da bambola giapponese, sbattendole la testa contro la parete. Se fosse stato un racconto cyberpunk, a quel punto dalla ferita sarebbero usciti mille cavi scintillanti e non puntini nebulizzati sull’intonaco: biologicamente grumosi, materialmente grigio-scarlatti.
Le mani sulle orecchie, un urlo muto.
Lo avrei abbracciato.
Ma tremava... Tremava come una foglia. E avevo pensato incoerentemente che nel posto in cui sono nata c’è sempre vento e... Silenziosi e veloci. Uomini in unifome sanitario-mormonica avevano portato via la ragazza, sotto sirene intermittenti. (John Smith comes by ambulance) Settimane dopo avevo sentito parlare di prognosi riservata e terapia intensiva. Credo se la sia cavata, alla fine. Chissà come funziona il sistema medico inglese? Beh, comunque quella sembrava il tipo “groupie assicurata contro danni da gang bang”: le mie intemperanze da mamma-tigre dovevano essere parte dei rischi del mestiere.
Ero tornata in Italia senza problemi: solo qualche commento molto poco british sll’aereoporto e qualche ora alla dogana. (Avrei fatto meglio a non mettere gli anfibi e il collare per passare nel metal detector! ) Agenti pallidi e lattiginosi avevano frugato tra la biancheria sporca alla ricerca di qualsiasi sostanza non dichiarata e io mi ero seduta mansuetamente sul tavolino sistema-oggetti, addentando una mela verde-aspro.

mercoledì 10 marzo 2010




Io sono Alice. "A volte provo a credere a sei cose impossibili prima di colazione". Muoio e nasco, precipitando nella tana del Bianconiglio. Sono la bambina che viaggia per avere domande e dare risposte, con una luna Stregatto Burton-Miyazaki striata di ricordi e ricorsi e il Brucaliffo Ulysses che mi guida nel dedalo dell'oracolo. C'è stato un tempo in cui il mio sogno aveva saturi colori gocciolanti e indossavo l'armatura lucente del principe paladino, ma ora voglio solo abiti gotici bellissimi e ritagliati su misura. E cappelli per la DELIRANZA...

lunedì 8 marzo 2010

Festa della Donna. Giornata gialla di bellezza troppo effimera. il gusto amaro di escoriazioni mi arriva fino in gola.
Ascolto Charlotte Gainsbourg e post-o un racconto scritto per chi mi ha amato nonostante tutto



PREHISTORIC VENUS

Faccio la doccia. Mi lavo con cura con sapone al gelsomino. Cerco di raschiare via la sensazione di sporco. Schiarisco lo specchio. Immagine appannata di bianco. Dicono che le somigli, ma non è vero. Mia madre negli ultimi tempi pareva una statuetta della fertilità preistorica: seno lento, antico, di latte e tenerezza decaduta, bacino aperto, fiore diradato. Guardarla mi metteva a disagi. Mi veniva da pensare che ero la causa di tutto, persino dello scorrere implacabile del tempo sui solchi della memoria. Le avevo regalato un accappatoio nuovo e firmato, ma era rimasto piegato in quattro nel cesto di vimini dell’ingresso.
Preferisco mettere quello a quadri. Mi pare di essere in compagnia.
Quello a quadri era degli anni Settanta e la spugna era consumata lungo il collo.
Quello a quadri era di mio padre. Tutto era così in quella casa. Lui se n’era andato senza mai andare via davvero. Restavano tracce ovunque, nascoste e silenziose per concederle piccoli momenti di nostalgia dietro alla corazza concreta dei giorni. una volta alla settimana Daria entrava in bagno, si sciacquava senza entusiasmo con schiume scadenti per poi coccolarsi per ore con creme profumate di mora, vaniglia, cioccolato. Usciva in una nuvola di vapore, con i capelli ancora avvolti in un asciugamano umido. Con quel esotico turbante da Moira Orfei che oscillava pericolosamente senza cadere e senza sciogliersi, accendeva il forno e puliva patate e gamberoni da sistemare nella teglia. Il metallo cotto dall’acido aveva partorito romantici momenti in bianco e nero. Subito dopo il matrimonio erano stati a Venezia. Non in viaggio di nozze, però. Non avrebbero avuto i soldi per una sola notte al Danieli. Erano partiti una mattina di aprile prendendo a casaccio il primo treno in partenza alla stazione. Era stato prima dell’alluvione di Firenze, molto prima che io nascessi.
Una bambina può rafforzare un rapporto. O incrinarlo per sempre. Giorni di ospedale e preghiere ad un dio distratto che mi aveva dato un nome sbagliato. L’amore era rimasto, ma come una tazza fissurata che può spaccarsi ad ogni giro di microonde.
Salvare il salvabile. Vietato piangere.
In primavera passavamo le vacanze tutti e tre insieme. Bordeggiavamo appena sottocosta, le vele spiegate nel vento, scoprendo meravigliose isole su scogli rifugio di gabbiani. Non ricordo molto di quel periodo, solo l’odore di lacca e sale sottocoperta e una lieve tensione nell’aria. Restavo per ore a giocare in una piscina gonfiabile di plastica azzurra mentre la nostra gatta, a prua, spiava i pesci che guizzavano tra le onde. Da qualche parte, in uno scatolone sepolto dai miei mille traslochi, devo avere ancora delle foto, ma preferisco lasciarle là sul fondo del ripostiglio, in alto, dove non si arriva nemmeno arrampicandosi sulla scala.
Amo la musica ma da quando la mamma è sparita, ho nascosto anche i suoi cd e ho cominciato a cambiare casa con una rapidità allarmante. Sempre più in fretta, sempre più lontano, seguita da un corteo di libri e frammenti di vita eppure il paesaggio fuori dalle finestre piombate di un attico
ultra-moderno è lo stesso che vedevo affacciandomi sulle colline della mia città: palazzi, e luci, e strade. Dove sono? Nuvole cariche di pioggia. Le cattive previsioni sono quasi sempre azzeccate. Infilo i Dottor Marten’s verde petrolio, verde lucertola e una gonna di lana scura.
Odio il freddo, gli spilli di acqua gelata che ti inzuppano i guanti fino a farti dolere le dita e come al solito l’autobus è in ritardo. Mi accendo una sigaretta nell’attesa, per confermare quel rito che ti costringe a schiacciare il mozzicone mezzo consumato contro il muro per poi inalare puro catrame tossico, durante la pausa pranzo (“Bisogna fare economia in tempi di crisi” ). Non mi è mai piaciuto fumare. Ho iniziato dopo che al commissariato un poliziotto gentile – occhi verdi e accento del sud – mi ha detto che avrebbero sospeso le ricerche. Il fumo di una Wiston è il mio modo disperato di essere ancora bambina, ancora figlia, ancora divinità.

domenica 7 marzo 2010

"spiegatemi voi dunque, in prosa o in versetti, perchè di cielo ce n'è uno e la Terra è tutta pezzetti"
tra dovere e volere... "VOLVÈRE". Mi piace: ha qualcosa anche del girovagare per poi tornare a casa...

lunedì 1 marzo 2010

OUT OF SONA

IERI, dopo tanto tempo, mi è capitato di parlare con un'amica di un ragazzo che conoscevo. Non sappiamo cosa stia facendo ora, non siamo certe che stia bene... Lo immaginiamo col chiodo anche nel caldo umido di Panamá...



Occhi neri: pozzi di disperazione. Vacillo sull'orlo del precipizio. Deve esserci una ragione per l'angoscia di un pallore innaturale, per la magrezza nervosa delle braccia. Guardo le vene pulsare azzurre e tese sotto la pelle. Unghie sporche e una cantilena inarrestabile, domande senza risposta che si ripetono insensate nella malinconia rassegnata del monologo interiore. Da tempo ha rinunciato all'illusione di un interlocutore paziente. Parla solo per sé stesso, in attesa di un sonno che si trasformi in momentanea quiete.
Perché? Perché?
Troppo facile scavare nel passato per trovare la foto sbiadita di una donna. Carnagione dorata spenta dall'amarezza di lividi scuri che le chiudevano le palpebre. A volte, per uscire, indossava grossi occhiali da sole da diva anni '50 e provava ad immaginare di essere ancora a casa, sulle banchine affollate del canale, ad ammirare le navi che passavano sbuffando come draghi da fiaba.
Con un po' di sforzo rivedeva la curva sottile delle palme, ma Flor non poteva essere al sicuro sulle spiagge di sabbia bianca,e giocava ostinatamente a non pensare ai militari che pattugliavano i vicoli del quartiere. Le avevano detto che non erano soldati, però lei sapeva, sapeva che mancava loro solo una divisa, dato che avevano già pistole calibro .38 , scariche elettriche a 300 volt e una retorica piena di miele che feriva più di qualsiasi arma. Con quella avevano spaccato il paese, inventandosi una nazione commerciale che legittimasse il dominio economico indiscriminato, dopo anni di scempio.
La prigione in cui si era rinchiusa adesso non era poi così diversa e dalla finestra non vedeva altro che il grigiore monotono e anonimo di palazzi squallidamente identici. Si asciugava una lacrima mentre lavava i piatti e sistemava la cucina. Il marito si alzava all'alba per andare al lavoro, e fargli trovare la colazione pronta in tavola e il pranzo in una vaschetta di plastica sigillata era il suo compito quotidiano. Era naturale. Cosa c'era di sbagliato? Eppure bastava un piccolo errore...
Si era di nuovo dimenticato di lasciarle sulla credenza i soldi per la spesa; succedeva sempre più spesso. Ma no, non era cattivo. Almeno dava un'educazione a Miguel: comunque andasse lui aveva bisogno di una figura paterna, qualcuno che lo guidasse dopo la fuga di Rául.

Tutta la famiglia cenava in silenzio davanti al telegiornale delle otto in una liturgia collaudata. Il ragazzino aveva ormai imparato a tacere, concentrandosi sul cibo. Aveva capito che ogni rumore era punito da uno schiaffo che rischiava di spingerlo con la faccia nel piatto. Assistevano muti alla sfilata impietosa di incidenti mortali sulle autostrade nella canicola di luglio, macchie scure che si allargavano sull'asfalto, tra le lamiere, senza filosofia, senza umanità: ...e passiamo alla prossima notizia...
Difficile continuare in quel sopore impotente, accumulando mille microfratture dell'anima; fare qualcosa, qualsiasi cosa, prima di impazzire. Per questo il bambino e la ragazza si erano alzati, in piena notte, muovendosi in punta di piedi nel salotto riordinato con cura, cercando la chiave del casotto in giardino. La porta cigolava sui cardini di metallo. Erano là, allineati in una rastrelliera contro il muro: sei fucili austeri e ben oliati. Li avevano avvolti in un lenzuolo per trascinarli fino al ponte. Difesa sacra della proprietà e inutili, virili battute di caccia erano scomparse per sempre sul fondo fangoso del fiume. Quali sarebbero state le conseguenze? Le prede erano tornate a casa con la calma suicida e orgogliosa dei martiri.
Se fosse stato vero che i giorni hanno il potere misterioso di scorrere uguali in una vita mediocre, non ci sarebbe stata la telefonata fredda e il silenzio perso di sua madre, stavolta perso davvero, quella mattina. Castello di certezze famigliari schiacciato contro un camion. Non rimane più niente...
È stato questo? Rispondi

Un sorso di vino. Addormentarsi sul marmo di uno scalino. Troppa solitudine cancella la speranza.
Dov'erano le persone che dicevano di essere amici? No, era una finzione crudele, molto meglio un oblio artificiale.

Magari se lui avesse aspettato, se avesse resistito ancora un po', avrebbe visto una neonata dai grandi occhi verdi di fiducia illimitata, in un futuro in cui sarebbero restate tracce di un pallido sole. Ma questa è una storia che nessuno ha saputo scrivere.

domenica 28 febbraio 2010

DIANTHUS CARYOPHILLUS CABARET

Ho postato questo racconto nel tentativo di capire come si aggiungono link al blog, ma non ne sono venuta a capo... (sigh) Dato che così è incompleto, prego chiumque stia leggendo di cercare la traccia audio o video di GRAVITY dei DRESDEN DOLLS!



Il treno sbuffava lento, curva dopo curva, nella desolazione triste dei campi grigi di abbandono, nella pioggia di novembre. Tenute in rovina e cartelli sbiaditi che sembravano voler cancellare ogni ricordo di vita. Difficile immaginare l’esplosione rossa del mare di garofani dell’epoca del boom assurdo dei fiori ornamentali. Delilah di muoveva inquieta sulla poltroncina di vimini – testimonianza malinconica di un’eleganza passata e inutile -.
Nello scompartimento restavano solo due donne: le facce smunte, segnate dal tempo, i capelli raccolti sotto i fazzoletti neri del lutto perché sulle colline c’erano continuamente morti o scomparsi da commemorare, dietro alle finestre sprangate dalla diffidenza contadina.
Non aveva senso tornare, ora che non era rimasto più nulla, ma lei avvertiva il bisogno, l’urgenza di rivedere la casa di pietra scura della sua infanzia. Era partita con l’idea fissa di salire le scale d’ardesia spaccate dall’erba per inchiodare al muro la sua laurea nuova di zecca. In una cornice trasparente.
Da mesi rimandava il viaggio, facendo appello alla logica, nascondendo il timore irrazionale dei fantasmi e il rimorso. Persa nella nebbia anonima che avvolgeva la città, non era venuta nemmeno al funerale di chi le aveva fatto da madre. Non posso. Ho l’ultimo esame di architettura e poi...
Infondo era stata lei ad insistere perché frequentasse l’università.
Adesso, seduta nel vagone quasi vuoto, giocava con la collana e guardava il proprio riflesso tingersi di trasparenze cangianti contro il tramonto spazzato dal vento, sulla monotonia di un paesaggio ripetuto.
Sferragliante. Sordo.

Qund’era piccola accompagnava la nonna a controllare la proprietà. Ogni lunedì pomeriggio, montavano su una carrozza senza tettuccio che percorreva i sentieri di terra battuta e gli orti pieni di profumi, appesi sul mare. Aprivano i parasoli gialli e riannodavano i fili di una verità avvincente come una leggenda. Si raccontavano di un uomo arrivato lì dal niente sulla scia della folle corsa degli stranieri.
Tuo nonno Mathivet era il più ricco della regione, bambina. E il più potente. Non dimenticarlo mai.
No, non avrebbe mai potuto dimenticare.
Il rumore metallico della chiave nella serratura, la ruggine che girava sui cardini, il salone immerso nel buio. Aveva chiuso gli occhi, vorticando in quel delirio di foglie morte, nel centro vuoto del mondo. Mp3 acceso sull’universo immobile. La fantasia dava un suono digitale e vintage alla gola rauca del vecchio grammofono impolverato.
Ed ecco Diamanda. Languidamente sdraiata su una scese longue Luigi XVI, lungo bocchino d’ebano e platino, copricapo d’oro-cristallo, sguardo profondo di kajal importato, rotondità dolci e provocanti. Bellissima ed irraggiungibile in una foto mentale color seppia antico . Attrazione più che naturale.
Tutto appariva finalmente evidente. Delilah era là per presenziare a quella festa di spiriti ingialliti dalla crudeltà delle stagioni, per fermarsi ancora una notte e aspettare il padrone.
Era sempre stato così. I ricevimenti erano una maschera per vincere la noia della solitudine e sopportare l’assenza di un marito commerciante troppo impegnato ad accumulare denaro. Rientrava due volte l’anno e allora la recita finiva, si scacciava la servitù e si preparava una colazione piena d’intimità.
Questo era il suo compito: interrompere la danza, accendere il fuoco e scaldare l’acqua per il caffè – pungente aroma nero che invadeva la stanza –
E le era parso quasi di sentirlo, i suoi passi leggeri e distinti sui gradini, la figura sottile e gli impomatati baffi dagherrotipici prima che il sogno si riversasse nella realtà, concitato e devastante. Tre uomini alla porta: correvano, bussavano, gridavano. Ombre senza volto, ladri di memoria.
Questo terreno appartiene alla Compagnia, signorina.
Domani cominceremo gli scavi.
Se ne deve andar. Subito.
Ovviamente riceverà un indennizzo.
“Esproprio” “Indennizzo”... ? Li ascoltava senza capire e all’improvviso era troppo stanca per combattere, troppo debole per agire. Per questo aveva firmato le carte – NERO SU BIANCO –
e aveva lasciato sul tavolo la sua storia.
Un’intera esistenza svenduta per pochi soldi, per un monolocale comodo e soleggiato in zona signorile.

FLEMISH DOLLS

火山kazan – vulcano –


Don Eneas restava immobile nella quiete aspra del giardino degli aranci, le mani poggiate sul pomolo del bastone, il riflesso della nostalgia sul vetro vivo degli occhi ormai ciechi. Là verso l’oriente segnato dal ciclo caldo del sole, il vulcano sonnecchiava innevato e nero, guardiano millenario della città immobile. Non aveva bisogno della vista per indovinare ogni dettaglio della sua piccola realtà quotidiana: era vecchio e lui stesso aveva inventato i paesaggi tristi di un mondo scomparso. Era stato il migliore nell’epoca in cui le sedie avevano ancora un’anima calda di legno e paglia, prima che si comprassero i mobili in serie e i giovani finissero tutti imprigionati metropoli plastificate.

Non aveva più lavorato da quando aveva confezionato 15 rose con il prezioso broccato di Fiandra che un cliente gli aveva ordinato per un divano.
Non aveva più lavorato da quando aveva sepolto Lynn. Una ciocca bionda intrecciata nell’intelaiatura della sua ultima opera, per averla vicina per sempre. E da allora lei gli parla con la voce segreta degli Invisibili, continuando il racconto dolce della loro intimità.
L’aveva conosciuta nel profumo mediterraneo della zagara, nel susseguirsi giocoso dei giorni. Non le aveva chiesto nulla, se non la tranquillità innocente della felicità domestica e l’aroma speziato dei biscotti che cocevano in forno ogni mattina.
Un buon matrimonio si fa in cucina. Diceva.
Io penso al benessere dello stomaco e tu a quello del didietro !
Rideva, con il suo sorriso di perle bianche, e pronunciava “didietro” con uno sguardo malizioso, come se si trattasse della peggior parolaccia da osteria.
Lui a quei tempi non sapeva nulla del mondo, ma era stato certo di adorarla fin dal primo istante, nella musica allegra ballo di San Mahoma. L’aveva spiata per tutta la sera, da un angolo del patio del municipio, assentendo distratto ai successi professionali del Dottor Octaviano Sena Páez.
Lei volteggiava in una nuvola di sangallo azzurro.
L’aveva cercata tra la gente che tornava a casa ubriaca di speranze e di voti fatti a un dio svogliato.
Le aveva offerto le parole di fuoco del grande poeta e le stelle accese sul ciglio bollente dei crateri.
Era arrossita d’imbarazzo infantile, scavando semicerchi nella polvere della strada, poi lo aveva preso per mano per poter sfuggire alla prigione delle rigide convinzioni della sua famiglia di inflessibili banchieri calvinisti.
Forse lui era l’unico che l’aveva lasciata vivere senza giudicarla.
Non l’aveva rimproverata, inciampando nelle ciotole piene d’acqua di fiume per dissetare gli spiriti e, soprattutto, le concedeva di giocare con le bambole.
Se il vento ricopriva il villaggio di cenere rossa, sua moglie usciva di casa con un borsa di stoffa marrone che imbottiva di lapilli quasi fino all’orlo.
Questa è la tua nuova bambina
E aveva il tono perentorio, prostrato e soddisfatto della puerpera.
Eneas abbandonava il lavoro e mischiava erbe secche e fuliggine per cucire e modellare la fisionomia dell’ennesima principessa muta. Lynn non sarebbe mai rimasta incinta, ma andava bene così.

L’impagliatore ora ricorda ogni momento con la precisione sconcertante del rimpianto. Un ritornello che lo tormenta e non lo fa riposare: non avrebbe dovuto permetterle di scalare la montagna per cogliere fiori.
Si era persa, vagando nell’oscurità di boschi troppo fitti per i piedi degli umani. Magari aveva pianto fino a consumare la propria disperazione e poi si era addormentata nel verde intenso di una radura.
L’avevano trovata i cacciatori, tra le foglie rosse di ottobre e lo avevano chiamato. Ma un uomo non può reggere un peso simile e lui aveva smesso di vedere per non dover contemplare lo scempio immondo della Natura.
Aveva preso solo il sacchetto ed era scappato.
Ricreare la sua bellezza diafana era diventata un’ossessione abbagliante, finché le dita dell’esperienza avevano confezionato un minuscolo vestito di gala e la bocca tremante aveva immaginato un nome per il delicato odore blu di flora lavica.
Alisa.
Intrappolata con le sue sorelle silenziose in una delle cento stanze chiuse a chiave dalla solitudine e dalla rovina degli anni.
Giocattoli con uno scricchiolante cuore di passato remoto, da venerare con essenza alla vaniglia e micro-tazze di tè inglese.
Dando corpo al fantasma dell’amore eterno, l’aveva pregata di accompagnarlo nel pericoloso viaggio nel labirinto contorto della memoria. Per sapere in quale camera accendere le candele del ricordo.
Non conta più, lief. Non conta più.

sarin combination: rotten rotten flowers / poison trip

Se mi state chiedendo che cosa mi abbia spinto, la riposta è semplice: non ne ho idea. Forse è stato per noia. Non cerco la salvezza; sono lontana anni luce dalla religione.
Qualcuno mi ha accusato di essere debole, suggestionabile, ma non è questo il punto o almeno non è la sola spiegazione.
Casalinghe che si dibattevano come pesci sui marciapiedi dei binari , spasmi involontari prima dello stato vegetativo assoluto. Pazzesco. Una donnina piccola e paffuta, scarpe basse e collant velate. Arance sparse sull’asfalto.
Uno studente dall’aria seria e composta: occhiali e cartella di cuoio nera; si preparava diventare l’impiegato modello di una grande azienda. Poveraccio, magari ne era convinto. Una volta anch’io ero così: ordine e precisione maniacale negli appunti ricopiati con pennarelli diversi sul quaderno. I professori erano allibiti quando ho preso il primo quattro. Ho tagliato l’uniforme scolastica e l’ho customizzata con l’aerografo. Tre mesi dopo ho lasciato il liceo.
Ero stanca. Basta .
Non vi illudete: mi avete presa perché mi sono bloccata invece di correre subito verso il tunnel dell’uscita d’emergenza della stazione. Volevo raccogliere stupidi frammenti di vita cristallizzata. Ho capito benissimo che ora c’è un uomo che mi spia oltre il vetro schermato attraverso la
micro-camera camuffata da termostato. Mi credete davvero tanto ingenua? Innanzitutto, se quel condizionatore funzionasse sul serio, l’aria sarebbe respirabile, qui dentro e invece mi sento soffocare e i vestiti mi si incollano addosso.
Poco fa è comparso un poliziotto in borghese: faccia da gradasso, completo marrone spiegazzato e alito che sapeva di caffè. È rimasto sulla porta a fissarmi, senza interrogarmi; mi sarei aspettata botte, grida, scosse elettriche e invece no: la tortura peggiore è il silenzio. Non corrispondo al vostro concetto di alieno? Vi ho spiazzato, ma vi state divertendo. Vi hanno riempito la testa di corsi
anti-terrorismo infilandovi a forza – per ore – in asettiche tute spaziali, ma non siete preparati ad affrontare un’adolescente. Gonna plissettata, camicetta con infantili maniche a palloncino, trecce legate da un grande fiocco azzurro.
Mi chiamava Sarah K, accarezzandomi la testa e il suo sorriso mi scioglieva il cuore.

Resto muta. Moventi? A leggere i giornali la nostra è una generazione vuota, inconcludente.
Ma non mi va di essere interpretata e studiata. Prendete nota. Tutto quello che dirò potrà essere usato contro di me in tribunale...
... Ah, sì,dimenticavo: ho diritto ad un avvocato...
...Selene ha studiato giurisprudenza, mi pare. Ma io e lei siamo troppo diverse. La sua scintillante fuggevolezza bionda, gli occhi verdi, l’eleganza naturale dei gesti...
Comunque oramai è tardi. Mi avete portato via il cellulare con la scusa di esaminarlo con tecnologie da laboratorio. Smontatelo, riducetelo a pezzi: circuiti, fili e schede integrate che ingabbiano comunicazioni ininterrotte e disegnano la mia routine.
Non scoprirete nulla su Hamlet
Non è così sprovveduto da farsi incastrare da giochetti alla CSI. Ha buttato via il suo vecchio Blackberry da un paio di settimane. Nessuna traccia.
Ieri vi ho detto che vi avrei parlato di lui, ma mi avevate promesso una Chesterfield che poi non s’è vista: avrei confessato qualsiasi cosa per mancanza di nicotina. In ogni caso, sembra che quel che posso rivelarvi non vi interessi. Non mi ha mai raccontato molto, in fondo. Persino il suo nome è fittizio, nient’altro che un nickname un po’troppo pretenzioso.
Penso che frequentasse uno di quegli istituti privati dei quartieri alti. Era stato cacciato per aver costretto un ragazzino a tagliarsi un dito col temperino. Via. Di netto. Schizzi pulp sul muro della sala del club di artistica. Non sono sicura che la storia sia vera. Peccato, era così brillante! Chi se lo sarebbe mai aspettato!
Certo che la dea Benten circondata dai fiori di ciliegio sulla sua schiena....
Aveva qualcosa di strano. Non era normale!
L’avevo conosciuto ad un raduno di aspiranti suicidi nell’assurda calura di un’estate urbana. Non che volessi morire o roba simile: mi ero iscritta per incontrare gente nuova, sarei arrivata ad un passo dalla fine dando forfait un attimo prima di chiudere la sicura delle portiere della macchina. Tavolette di carbonella compressa da bruciare in piccoli spazi claustrofobici
Capita spesso che alcuni scappino con l’ultima corsa della metro e tornino nelle loro buie camerette nerd.
Non noi. Avevamo cominciato a vivere insieme come se fossimo sempre stati fratelli. Io, che non avevo mai ricevuto affetto, abbracciavo con lo sguardo i fiori freschi che profumavano la luce dorata di quell’appartamento al sedicesimo piano.
Mi dispiace, non so dove sia adesso. Ha preso 13 fialette di sarin e se n’è andato. Sparito in qualche zona affollata del centro nell’ora di punta. Non mi stupisce che non abbiate ancora ricevuto la chiamata. Ovvio. “Lasciar calmare le acque”: è questa la sua filosofia. Avevamo appuntamento da McDonald’s per il pranzo – milk shake alla fragola e insalata di pollo –
controlez vôtre menu, s.v.p.
Se solo avessi seguito le istruzioni non avreste profanato il nostro rifugio. Non è rientrato a casa, vero? Cosa avete trovato?
Pavimenti pulitissimi ed iris in putrefazione.